Alla fine il Partito Democratico americano ha deciso di avviare la più volte minacciata procedura di impeachment contro il Presidente Trump. L’esito è probabilmente scontato, considerato che i democratici, a meno di sviluppi straordinari, non sembrano in grado di coagulare in Senato la maggioranza di due terzi richiesta dalla Costituzione per attivare la messa in stato di accusa del Presidente.
Non è nemmeno da escludere che Trump tragga un vantaggio politico da questo scontro, ma tant’è, il dado è tratto e i democratici avranno valutato i pro e contro della loro iniziativa. A uno sguardo più attento, però, la vicenda offre uno spaccato del degrado e dell’ipocrisia della politica americana.
Fino a un mese fa le ricorrenti riflessioni sull’oppurtunità di un impeachment si basavano sul cosiddetto “Russiagate”: i russi, in combutta con Trump, avrebbero organizzato un imponente intervento sui social network che avrebbe condizionato in modo determinante l’esito delle ultime elezioni americane. Nonostante si tratti di una tesi implausibile e per certi versi grottesca, essa è stata a tal punto rilanciata e pompata dai media che per molti si tratta di un dato di fatto che non necessita di ulteriori verifiche.
La storia del “Russiagate” in realtà venne alla luce prima delle elezioni statunitensi, subito dopo la pubblicazione da parte di Wikileaks delle compromettenti mail di Hillary Clinton, dalle quali emergevano, fra l’altro, gli intrighi ai danni del rivale per la nomination Sanders, qualcosa di simile a quanto ora viene imputato a Trump. La Clinton reagì sostenendo (probabilmente con qualche ragione) che le mail erano state in realtà trafugate dai russi, allo scopo di indebolire la sua campagna elettorale per la presidenza. Successe così che il contenuto delle mail passò in secondo piano e divenne oggetto di analisi da parte di pochi appassionati, mentre una possente campagna di stampa spostò l’attenzione sui perfidi russi.
Ma torniamo all’impeachment di Trump e vediamo come lo storie si intrecciano. Tutto nasce dalla rivelazioni di un funzionario dell'intelligence (sembra la CIA) il quale entra in possesso – non è chiaro a quale titolo – della trascrizione di un’imbarazzante telefonata fra Trump e il presidente ucraino Zelenski e decide di passarla ai vertici del partito democratico. In particolare, nella telefonata, poi divenuta di pubblico dominio, Trump sollecitava Zelenski a effettuare indagini su Joe Biden e su suo figlio Hunter, lasciando intendere di subordinare a tale iniziativa l’invio di aiuti militari per 400 milioni di dollari. Joe Biden è il principale candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali e quindi l’accusa che viene rivolta a Trump è quella di aver abusato dei suoi poteri per danneggiare un potenziale competitor.
Non è nota l’identità del funzionario dei servizi segreti, il quale è protetto dalla legge sui cosiddetti “whisteblower”, sui soggetti, cioé, che denunciano condotte illecite dell’ente pubblico o privato preso cui lavorano e di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle proprie funzioni. Si tratta di una legge piena di buone e condivisibili intenzioni, ma c’è da chiedersi però perché essa non sia stata applicata a Chelsea Manning, l’analista di intelligence che denunciò la condotta criminale di alcuni militari statunitensi durante l’occupazione dell’Iraq, fra cui, come rivela un filmato trafugato, l’uccisione a sangue freddo di civili inermi, con tanto di contorno di risate e scherni.
Manning fu invece arrestata, condannata a 37 anni e detenuta sino alla grazia concessale da Obama, salvo poi tornare in prigione, dove resta tuttora, per essersi rifiutata di deporre nel processo contro il fondatore di Wikileaks, Julian Assange. Anche quest’ultimo è detenuto da tempo in condizioni di isolamento completo nel Regno Unito, nel silenzio dei tanti difensori dei diritti civili e della libertà di stampa. E che dire di Edward Snowden, il tecnico informatico della CIA che è dovuto riparare in Russia dopo aver rivelato il sistema di sorveglianza di massa messo in piedi dalla NSA (National Security Agency), che era arrivato ad hackerare anche i cellulari dei leader europei, nominalmente alleati degli USA?
Ma non lasciamoci distrarre da queste pur legittime considerazioni e cerchiamo invece di capire cosa c’entra l’Ucraina con Joe Biden e il suo figliolo e su cosa dovrebbero indagare le autorità giudiziarie di quel Paese. A tal fine, è necessario fare un piccolo passo indietro nel tempo sino alla “rivoluzione” che portò alla destituzione dell’allora presidente di quel paese, Janukovic.
Siamo nel febbraio del 2014 e a quel tempo Biden era il vicepresidente degli Stati Uniti, mentre John Kerry era da poco subentrato alla Clinton nell’incarico di Segretario di Stato. Non è questo il luogo per ricostruire in dettaglio come effettivamente si svilupparono quegli eventi. E’ sufficiente ricordare che, come si evince anche dalle mail trafugate alla Clinton risalenti a un paio di anni prima, l’Ucraina era una specie di ossessione dei politici americani, soprattutto di matrice democratica, ed è palese che gli Stati Uniti si siano dati da fare per supportare le manifestazioni di piazza e determinarne l’esito.
In particolare, risulta rivelatrice una telefonata, hackerata probabilmente dai russi e facilmente reperibile su youtube, fra l’ambasciatore USA in Ucraina e Victoria Nuland, vicesegretario di Stato e già beniamina della Clinton. Nella conversazione, occorsa proprio nel febbraio 2014, i due inizialmente discutono su quali siano i politici più idonei e “affidabili” da piazzare nei posti chiave dopo la cacciata di Janukovic. Dopo questa disamina, la Nuland comunica all’ambasciatore la sua insofferenza nei confronti della politica di mediazione fra le parti condotta dall’Unione Europea e dichiara che fortunatamente il Segretario dell’ONU Ban Ki-moon è dalla nostra parte e quindi “fuck the EU”.
Il 22 febbraio 2014 Janukovic cade e viene sostituito da politici “affidabili”. Solo venti giorni dopo, il figlio di Biden entra nel consiglio di amministrazione di Burisma Holding, la principale impresa produttrice e distributrice di gas del Paese. Una decina di anni prima, ai tempi della guerra con l’Iraq, gli americani erano stati più diretti, allorché, appena conquistata Baghdad, il primo edificio pubblico che avevano occupato era stato il Ministero del petrolio.
La scelta di affidare tale incarico al figlio del vicepresidente non può non lasciare interdetti e richiama alla mente il modus operandi dei regimi più autoritari, in cui gli incarichi importanti vengono affidati a membri della famiglia del leader. Il giovane Hunter, fra l’altro, non aveva nessuna esperienza in materia e solo pochi mesi prima era stato dismesso dalla Riserva della Marina perché trovato positivo alla cocaina.
Ma c’è un altro aspetto che rende ancor più delicata la faccenda. Burisma era controllata da Zlochevsky, uno dei principali oligarchi del Paese con diversi guai con la giustizia e i cui beni esteri erano stati posti sotto sequestro nel Regno Unito su istanza dei creditori. Sembra che il procuratore generale ucraino stesse conducendo delle indagini sulla società anche al fine di corrispondere alla richiesta delle autorità britanniche della documentazione necessaria per la conferma del sequestro.
Fatto sta che nel 2015 Joe Biden, in uno dei numerosi viaggi compiuti in Ucraina, incontra il neopresidente Poroshenko e gli intima di rimuovere il procuratore generale, minacciando in caso contrario di bloccare il promesso miliardo di dollari di aiuti. E’ lo stesso Joe Biden a ricordarlo nel corso di un evento nel 2018 di cui è stata riportata la trascrizione: ” I said, 'You're not getting the [$1 billion]. I'm leaving in six hours. If the prosecutor is not fired, you're not getting the money.' Well, son of a b****. He got fired". Sembra la fotocopia del comportamento tenuto più recentemente da Trump nei confronti del nuovo presidente Zelenski.
Effettivamente, il procuratore fu licenziato e il suo successore non inviò la documentazione richiesta dal Regno Unito. Zlochevsky recuperò così i suoi soldi, dopodiché sparì, con la conseguenza che Hunter Biden ha continuato a sedere nel consiglio di amministrazione di Burisma (lasciato solo nell’aprile di quest’anno) senza che fosse noto a chi apparteneva l’impresa.
A sua volta, il governo ucraino ricevette il miliardo di dollari di aiuti statunitensi così come ricevette oltre 15 miliardi di dollari a seguito di un finanziamento deciso a tempo di record dal Fondo Monetario Internazionale.
Giusto nello stesso periodo la Grecia stava conducendo estenuanti e umilianti negoziazioni per ottenere analogo finanziamento dal Fondo.