AGI - Andrea Cavallari, 26 anni, condannato a 11 anni e 10 mesi in via definitiva per la strage di Corinaldo (Ancona), non è più in cella. Laureatosi in legge all’Università di Bologna, dopo la cerimonia ha fatto perdere le proprie tracce ed è ricercato da giovedì scorso, come riporta il Corriere di Bologna.
Cavallari faceva parte della banda che l'8 dicembre 2018 tentò una rapina nella discoteca Lanterna Azzurra a Corinaldo (An) utilizzando spray urticante, causando un fuggi fuggi in cui morirono 6 persone e altre 59 rimasero ferite. Il ventiseienne, originario della Bassa Modenese, era detenuto nel carcere della Dozza, e aveva avuto un permesso per discutere la tesi.
La replica dell'Università
“La decisione di essere accompagnati alla laurea con la scorta è in capo al magistrato di sorveglianza, negli ultimi anni abbiamo avuto casi di lauree con la scorta, ma non spetta a noi. Ci adeguiamo alle decisioni del magistrato di sorveglianza. La parte inerente la gestione degli esami è stabilita dall'autorità giudiziaria, quindi non c'è nessuna interazione con l'università”. Così il rettore dell'Università di Bologna, Giovanni Molari, commentando la fuga di Andrea Cavallari che ha fatto perdere le sue tracce giovedì scorso, dopo la sua proclamazione a dottore in Giurisprudenza, in via Zamboni 26, in piena cittadella universitaria a Bologna.
Molari ha parlato del rapporto dell'Ateneo con i detenuti universitari, in un punto con la stampa, ricordando che “sessioni di laurea si sono svolte in questi anni anche all'interno del carcere”.
“In ogni caso – ha sottolineato -, quello del polo universitario penitenziario è un percorso di cui andiamo orgogliosi perché dà la possibilità di trasformare la detenzione in riabilitazione e recupero sociale".
“Qualche anno fa – ha ripercorso - abbiamo rinnovato la convenzione che permette queste attività. Non abbiamo numeri elevati, circa 60 studenti, che frequentano i nostri corsi. Un terzo fa Giurisprudenza. Gli altri per la maggior parte Agraria e un'altra parte consistente facoltà umanistiche". Di questi studenti “circa il 50% completa gli studi” all'interno dell'Alma Mater Studiorum di Bologna, “gli altri si fermano o vanno altrove, spesso perché escono dal carcere o vengono trasferiti in altre strutture”, ha spiegato Molari.
"La gestione – ha riconosciuto il rettore - non è sempre facile: abbiamo difficoltà anche sui dati e il trasferimento di informazioni che avviene in gran parte mediante il cartaceo". All'interno delle strutture carcerarie, difatti, la connessione di rete è sottoposta a limitazioni – ha spiegato – e “per far sostenere gli esami ai propri studenti spesso i professori devono recarsi all'interno della casa circondariale della Dozza o al carcere minorile del Pratello”.
“È un percorso valido – ha rivendicato Molari -, non credo che questo episodio modifichi le regole, che sono già molto restrittive. In questi anni di problemi non ne abbiamo mai avuti". Molari non vede in ciò che è accaduto un possibile danno d'immagine per l'Ateneo bolognese. "Non credo ci sia alcun problema di immagine – ha sottolineato -. Questo è un fatto che esula da quello che è avvenuto all'interno dell'Università, perché la laurea si è svolta regolarmente”.
Il Garante, i permessi premio non vanno demonizzati
“L'aspetto su cui dovremmo riflettere non è l'esistenza di strumenti come i permessi premio o il lavoro esterno, che non vanno assolutamente demonizzati, bensì la totale assenza di percorsi dedicati alle vittime, capaci di riconoscerle pienamente e di stimolare negli autori dei reati una reale assunzione di responsabilità. Non una strategia difensiva, ma un autentico processo di consapevolezza e riparazione. Pertanto, occorre chiedersi se la giustizia riparativa potrebbe rendere percorsi detentivi come quello di Cavallari più significativi e realmente trasformativi, soprattutto in vista della concessione dei benefici”. Così Roberto Cavalieri, garante per i detenuti dell'Emilia-Romagna rispondendo a chi chiede l'eliminazione dei permessi.
“In Italia – aggiunge - , strumenti come i permessi premio fanno parte del programma di trattamento e possono essere concessi dal magistrato di sorveglianza a chi non risulti socialmente pericoloso e abbia mantenuto una condotta regolare. Questi permessi mirano a favorire il recupero dei legami affettivi, culturali o lavorativi. Tuttavia, ci si può legittimamente chiedere se i criteri adottati per la loro concessione siano davvero sufficienti, o se non manchi una valutazione più profonda. Implementare programmi di giustizia riparativa significa favorire un percorso che restituisca senso alla pena e dignità alla vittima”.
“Percorsi – raccomanda Cavalieri - che non vanno lasciati al caso, né ridotti all'incontro diretto tra vittima e autore del reato, incontro che, se non adeguatamente preparato, può rivelarsi sfavorevole, come nel caso di Innocent Oseghale, detenuto che lo scorso 7 marzo ha incontrato la madre della vittima nel carcere di Ferrara. È possibile ipotizzare che casi come questi amplifichino il senso di sfiducia nei confronti della giustizia riparativa. La giustizia riparativa non si esaurisce in quel tipo di incontro, che resta raro e delicato, ma va intesa in un senso più ampio”.