Mimmo Nesi e Domenico Nesci di LVenture grooup sul Sole24ore hanno provato, conti alla mano, a spiegare perché investire 5 miliardi in startup in 5 anni è fattibile, senza gravare troppo sulle casse dello Stato e senza vendere quote delle partecipate dal pubblico.
La proposta di investire 5 miliardi è la principale emersa dallo Startup Day di Agi dello scorso 5 febbraio. A sostenerla per primo è stato Salvo Mizzi, general partner di Principia
I due autori, che conoscono bene il mercato del capitale di rischio, individuano subito il modello in quello francese voluto da Emmanuel Macron (Agi lo aveva spiegato qui). Ma con qualche variazione. Macron ha annunciato che avrebbe investito 10 miliardi in innovazione nei prossimi anni raccogliendo soldi dalla vendita di alcune partecipazioni pubbliche (Engie e Renault) per 1,6 miliardi, e altri 8,4 miliardi dalle partecipazioni di Edf e Thales. Specificando però che di quei flussi solo 300 milioni saranno investiti direttamente in venture capital.
Perché lo scenario francese è quello che più spesso si cita a modello per l’Italia? Beh, anche l’Italia ha molte aziende partecipate dal pubblico, e le due economie, al netto della ‘geografia’ delle imprese francesi e la loro capacità di diventare colossi, hanno diversi punti in comune.
“Se si limita l’analisi alle partecipazioni dirette in società quotate, il numero scende a sei (in ordine alfabetico: ENAV, Enel, Eni, Leonardo, MPS, Poste Italiane). Escludendo MPS (in fase di turnaround, ristrutturazione, ndr) e senza considerare le partecipazioni detenute da CDP (il 25,76% di Eni e il 35% di Poste), il valore cumulato delle 5 partecipazioni, ai prezzi correnti, è pari a poco meno di 19 miliardi. Le stesse 5 partecipazioni hanno inoltre generato per il Tesoro, nel solo 2017, quasi 800 milioni di dividendi”, scrivono Nesi e Nesci. Che partendo da questi presupposti propongono:
1) Nessuna cessione di quote sul mercato, ma utilizzo dei flussi di dividendi;
2) Nessun investimento diretto dello Stato, ma solo co-investimenti con operatori privati;
3) Gestione delle risorse affidata a operatore pubblico, ma con esperienza di settore.
Per i dettagli della loro proposta, qui riassunta solo per punti principali, rimandiamo all’articolo del Sole24Ore. Ma i due autori spiegano anche perché si sono messi a tavolino a ‘disegnare’ lo scenario possibile. Il motivo è ciò che allontana la loro proposta da qualsiasi slogan politico (ne sentiremo tanti, già se ne sentono): “Senza un set ragionato e credibile di proposte su cui chiedere insistentemente un dibattito pubblico e su cui stimolare quotidianamente stampa e politica, le speranze sono, temiamo, destinate a rimanere tali. Verrà il tempo del lamento e della retorica, ma non prima di essersi impegnati con tutte le forze per dimostrare che una via sostenibile all’innovazione e al VC è possibile anche in Italia”.