La "storia nella storia" della scampata strage di San Donato Milanese è che i bimbi di seconda generazione, decisivi nello sventare l'attentato, non sono ancora italiani, mentre lo sono i bambini salvati e lo è, italiano, dal 2004, l'autista sequestratore pronto a fare il gesto folle contro le stragi dei migranti africani nel Mediterraneo.
Khalid Shehat, il papà di Ramy, il 13enne che per primo ha contattato il 112, ha rivolto un appello al Governo chiedendo di concedere la cittadinanza italiana a suo figlio e giustamente Palazzo Chigi si è subito detto favorevole (prima Di Maio e poi Salvini, ovviamente). "Ha fatto il suo dovere, sarebbe bello se ora ottenesse la cittadinanza italiana", ha chiesto Shehat. "Siamo egiziani, sono arrivato in Italia nel 2001, mio figlio è nato qui nel 2005 ma siamo ancora in attesa di un documento ufficiale".
Ha ragione il papà quando dice che sarebbe bello che il figlio diventasse presto italiano ma sarebbe ancora più bello che la storia a lieto fine ignorasse la questione "italiani sì, italiani no". Non essere razzisti significa trascurare del tutto il colore della pelle, il da dove si proviene, la religione, e tutte le questioni che mettono in ombra il fatto meraviglioso che dei bambini hanno rischiato la pelle contro un orco cattivo per salvare tanti altri bambini. Tutti abbiamo sentito la telefonata di Adam e nessuno si è meravigliato che parlasse con la mamma in italiano. Ecco, questa è la normalità e non ce la dobbiamo dimenticare. La normalità è che tra gli uomini non ci siano differenze perché siamo tutti uguali.
Sono particolarmente sensibile a questo problema perché, trovandomi spesso coinvolto in azioni umanitarie e di protezione della gioventù, noto spesso la sottolineatura che viene fatta dello straniero, del migrante, distinguendolo dall'italiano. Ha senso - faccio un esempio di fantasia - promuovere, in Italia, un pronto soccorso per bambini rom? La cosa sensata non sarebbe promuovere un aiuto per bambini "bisognosi" al di là della loro razza, della loro religione, provenienza e cittadinanza?
Una delle prime domande che la gente mi rivolge quando sa che vado in carcere a Rebibbia è: quanti sono gli stranieri? Per un po' di volte la mia risposta è stata "non lo so", poi mi sono dovuto documentare, ed ora rispondo "il 45% la maggioranza dei quali viene dall'Est". Ma, mi chiedo, questo mio adeguamento è un mio passo in avanti o un mio cedimento al groupthink, quella patologia del pensiero per cui, di fronte a un fatto, si pensa e si sente allo stesso modo di tutti gli altri?
Sapere se un carcerato è straniero può essere importante per un politico, per un giornalista, per un sociologo, ma non per un prete. A un prete non importa conoscere la provenienza del carcerato che incontra: è un uomo, quindi è Cristo bisognoso. Certamente né Ramy né Adam hanno pensato, l'altro giorno, quale degli amichetti fosse italiano o meno e a quale religione appartenessero. Si sono comportati, eroicamente, da uomini che hanno cercato, trovato e salvato l'umanità degli altri bambini.
Impariamo da loro la normalità. Impariamo ad uscire dal modo di pensare cui tutti ci obbligano. Impariamo dai bambini ad uscire dalla zona di comfort del consenso emotivo del gruppo. Pare un'operazione impossibile ma altre volte nella storia siamo riusciti a vincere battaglie simili. Per esempio, nessuno di noi se incontra un francese, si chiede se sia cattolico o protestante. Eppure le guerre di religione hanno lacerato l'Europa dal 16° al 17° secolo.
Se impariamo dai bambini, ce la possiamo fare anche noi.