Dare valore alla disoccupazione. Il primo a farlo fu Gesù
Chi rimane senza lavoro ha, in estremo, due possibili vie d'uscita: dare la colpa alla società oppure darla a se stessi. In una parabola il padrone remunera il tempo di lavoro di chi è stato disoccupato quattro volte tanto. Perché?
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Sta per concludere il suo iter il "Decreto Agosto", il testo che contiene misure di 25 miliardi di euro per far fronte alla crisi economica innescata dalla pandemia. In questo contesto di crisi economica, di grande disoccupazione, di sottoccupazione e di lavoro precario, mi colpisce profondamente il vangelo che la Chiesa propone oggi (Mt 20,1-16a).
È quello dove Gesù racconta una parabola in cui, a conti fatti, il padrone remunera il tempo di lavoro di chi è stato disoccupato quattro volte tanto rispetto a chi ha iniziato a lavorare dall'inizio della giornata. In pratica il Signore riconosce alla disoccupazione almeno lo stesso peso di chi ha lavorato duramente perché di fatto chi ha "sopportato il peso della giornata e il caldo" (Mt 20,11) viene pagato allo stesso modo di quelli che "stavano sulla piazza disoccupati" (Mt 20,3).
Il primo problema che viene in mente quando si pensa a chi è senza lavoro è la mancanza di reddito sicuro per sé e per i familiari. Questa però non è l'unica conseguenza, né la più importante: un Paese come l'Italia, dotato in qualche modo di ammortizzatori sociali sia familiari che statali, riesce in parte a sopperire a un disagio che comunque rimane.
Il problema più grande, e che pare essere proprio quello cui va incontro Cristo con la sua parabola, riguarda quelli che vengono chiamati "gli aspetti identitari del lavoro". Essi sono il ruolo sociale e l'autostima. Nella parabola, coloro che lavorano tutto il giorno, sanno di essere utili agli altri, alla società, e quindi questa consapevolezza dona loro una identità sicura e profonda: proprio quella che la sera dà loro la forza di lamentarsi con il padrone per essere stati pagati "come gli altri” che hanno lavorato un quarto del tempo.
I disoccupati invece sentono le sferzate dell'amaro sarcasmo giudicante di chi dice loro "perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?" tanto da essere costretti a giustificare la loro disoccupazione spiegando di non essere pigri o poltroni ma semplicemente persone che "nessuno prende a giornata", alle quali cioè nessuno offre un lavoro. È commovente che Gesù nella parabola dia valore alla loro risposta e arrivi a monetizzare quel disagio pagando quella fatica almeno tanto quanto l'altra.
Chi rimane senza lavoro ha, in estremo, due possibili vie d'uscita: dare la colpa alla società oppure darla a se stessi. Nel film "Full monthy" si racconta come gli operai licenziati riescano a resistere alla depressione proprio perché in loro, come classe, è più semplice la critica al sistema sociale, mentre invece il loro capo, un colletto bianco, nonostante sia senza impiego, continua ad uscire ogni giorno di casa in giacca e cravatta, perché non riesce a comunicare alla moglie il licenziamento del quale si vergogna come fosse una sua colpa,.
Su questa situazione difficilissima si aggiungono poi, a peggiorare il tutto, anche le questioni di genere. Un marito disoccupato capisce da solo che, per tagliare le spese, deve cominciare a fare lui stesso il baby sitter non mandando più i figli al nido, oppure deve rinunciare al badante assumendosi quel ruolo, ma spesso la fatica di questo passaggio psicologicamente non semplice viene trascurata dalla compagna che "non vede dove sta il problema". Allo stesso modo, anche se per ragioni opposte, la donna in carriera che, licenziata, si ritrova a fare la casalinga, sente su di sé una solitudine simile anche se con origini diverse: è la lontananza che le arriva non dal compagno, che magari la comprende, ma dalla società che dà per scontata la sua “casalinghitudine” ignorandone il peso che essa può avere credendola ovvia per una donna.
Concludo dicendo che mi sembra incredibile che tanta ricchezza possa essere contenuta in un "raccontino" inventato da un Ebreo di duemila anni fa. È il segno, almeno, di qualcosa di straordinario. Forse di divino.