Mengoni e le altre uscite della settimana
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Mengoni e le altre uscite della settimana
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Marco Mengoni – “Materia (Prisma)”: L’ultimo capitolo della trilogia della materia di Mengoni, al netto di “Due vite”, che resta una canzone splendida anche mesi dopo Sanremo, e “Pazza musica”, l’ottima hit confezionata con Elodie, che dentro qualche disco andava parcheggiata per forza, a differenza dei primi due, vive più della necessità di dire qualcosa, di lanciare dei messaggi, di lasciare un segno in chi ascolta, che delle sonorità che ormai Mengoni, come pochi altri, sa comporre e proporre, centro dei primi due lavori, specialmente il primo, “Materia (Terra)”, il migliore. La forza degli album di Mengoni risiede in questo pop raffinato, molto contemporaneo, che infatti riesce ad accogliere chiunque: Samuele Bersani, La Rappresentante di Lista, Madame, Gazzelle, Elodie, Ernia, Bresh, perfino il Kingdom Choir, questi sono stati gli ospiti delle tre “materie” di Mengoni, robe che non c’entrano niente tra di loro ma si danno appuntamento sullo stesso pianeta e tutte riescono a risultare consone al luogo. Questo pianeta pop affascinante, estremamente cool, arredato con gusto, impregnato di parole significative e accoglienti, veicoli agevoli nel traffico di una discografia famelica per messaggi che possano, perlomeno, sfiorarci. Mengoni è un ottimo artista, lo ha dimostrato in ogni forma e in ogni luogo, dove lo metti sfonda. Fedez feat. Annalisa e Articolo 31 – “Disco Paradise”: “Mille” funziona un po' più de “La dolce vita”, “La dolce vita” funziona un po' più di questa “Disco Paradise”, tutto normale, i limiti della musica industriale, impacchettata, infiocchettata, come un prodotto per essere venduto da quello che, a detta sua, è prima un imprenditore digitale e poi, se capita, quando capita, quando gli va, un musicista. Nulla di male contro i prodotti industriali, siamo una generazione cresciuta a suon di Crostatine, saremmo perlomeno poco credibili a demonizzare la cosa oggi, certo però che la differenza con il tiramisù fatto in casa dalla nostra compagna (e ogni riferimento alla compagna in questione che non lo prepara da troppo tempo è puramente casuale) lo sappiamo riconoscere pur non facendo Cannavacciuolo di cognome. Il brano parte con un giro che richiama agli spot anni ’90 della Coca-Cola, poi esplode in un ritornello cantato da Annalisa, vagamente “Locomotion”, dalla potenza dirompente di una minicicciola, uno special rap affidato agli Articolo 31, non di sicuro le migliori barre della storia di J-Ax, e il tormentone è bello che pronto. Il pezzo funziona, ci mancherebbe, è pensato apposta per funzionare, ma non contiene un solo, minimo, intento artistico; che volete farci? La musica è diventata questo, soprattutto questo, per risolvere il problema servirebbe una rivoluzione di massa, ascoltare tutti, letteralmente tutti, per un tot di tempo, solo musica buona; ma noi non è che ci crediamo granchè, e voi? Ernia feat. Bresh e Fabri Fibra – “Parafulmini”: Una hit che non è una hit ma che funziona come una hit, ma che in realtà respira grazie ad una serie di intuizioni che la rendono una canzone buona per tutte le stagioni, altro che hit. I parafulmini sono maschere che utilizziamo per nasconderci ogni giorno, anche quando ci esponiamo su Instagram come cani ad un concorso di bellezza, ammaestrati ai trend, ridicoli nel nostro noiosissimo conformismo, e i tre rapper sanno ottimamente celare sotto questo ritmo trascinante, ficcante, efficace, una malinconia di fondo, forse il segno delle penne del maestro Davide Petrella e di Calcutta, che hanno questo bel vizio di nascondere il tesoro, di regalarti il piacere della scoperta: pensi di accompagnare il tuo gin tonic con un ancheggiamento il meno ridicolo possibile e ti ritrovi a riflettere. Esperienza illuminante riflettere, provateci una volta ogni tanto. Fulminacci – “Ragù”: Divertissment di una spietata crudezza sul ruolo del cantautore; e questo è un modo di raccontare “Ragù”. Un altro consiste nell’ammirare, non accorgersi o evidenziare, come se fosse una novità, no, proprio ammirare, la capacità straordinaria di Fulminacci di giocare con sonorità, parole, temi, trovando una chiave quasi sempre ironica, sempre sbrilluccicante, genialoide, profondamente cantautorale, per raccontarsi, per la propria musica che, è importante, non viene mai incastrata in quella seriosità, in realtà estremamente più sempliciotta, che si mette al faticoso inseguimento dei grandi sentimenti, delle grandi imprese poetiche, della grande canzone italiana, sempre, sempre, sempre, invano. La genuinità di Fulminacci ci permette di godere di questa pioggia di parole azzeccate al millimetro e di constatare, ancora una volta, come sia di gran lunga il miglior cantautore della sua generazione, uno che resterà, uno che non ne sbaglia mai una. Tommaso Paradiso feat. Baustelle – “Amore indiano”: Ci voleva Bianconi per riportare Tommaso Paradiso sul pianeta della musica fatta come si deve. I due diciamo che si danno appuntamento a metà strada, infatti “Amore indiano” è contemporaneamente la miglior cosa fatta dal Paradiso solista e la meno pretenziosa fatta dai Baustelle negli ultimi tempi, che chiaramente devono adattarsi in un contesto decisamente meno spesso del proprio; ma perlomeno è qualcosa, una canzone che non vive solo di ammiccamenti al pubblico, come Paradiso ci ha abituati dagli ultimissimi Thegiornalisti in poi con risultati semplicemente imbarazzanti, ma che vuole raccontare una determinata faccia dell’amore, un frammento di vita intenso e memorabile. Non ci si strappa i capelli ma è un buon lavoro. Willie Peyote – “Picasso”: Uno dei migliori artisti che può vantare la scena musicale italiana, tutta, rap o non rap, ci trasporta, nonostante il pezzo sia discretamente andante, in quel mondo in bianco e nero di ricordi post fine di una storia, quando ci guardiamo allo specchio e ci ritroviamo il viso storto, come se avessimo esagerato con l’MDMA la sera prima, o come in un quadro di Picasso, appunto, dove tutto ci sembra scoordinato, squilibrato e ingiusto ma, in fin dei conti, è solo il nostro sguardo a distorcere una realtà nuova, che procede imperterrita ad esistere nonostante qualcosa non vada, la storia sia finita, e anche Cremonese-Salernitana diventa un gancio al quale aggrapparsi per far finta che tutto sia normale. Willie Peyote ci piace perché vive ciò che canta, che mica è obbligatorio ovviamente, per “vive” infatti intendiamo che li rende del tutto autentici i suoi brani, stabilendo un contatto confidenziale con chi ascolta, poi può anche non averli mai vissuti, non sono affari nostri. Maria Antonietta – “La tigre assenza”: Un’aspra battaglia in dieci pezzi combattuta contro i fantasmi della nostra vita, contro quelle entità che si sono aggrappate alla nostra vita attraverso le cicatrici che ci hanno procurato. Parliamo al plurale perché i fantasmi di Maria Antonietta sono anche i nostri, un po' perché queste dieci canzoni sono talmente splendide che alla fine ti senti parte di questa battaglia, senti l’odore della terra ancora calda dello scontro, percepisci il tuo corpo sanguinare, perderti in una stanchezza gloriosa, soddisfatta, definitiva. Perché questo fanno le canzoni quando sono belle canzoni, ti risucchiano dentro i più disparati vortici emotivi, schiavi della nostra introspezione, vincolati al pensiero, per migliorarci ancor prima di intrattenerci. Maria Antonietta è cantautrice di altro pianeta, che può vantare la sensibilità dei grandi pensatori, di quelli che la vita tentano di capirla e non solo di dribblarla, di quelli che non si lasciano in pace e ci permettono di percorrere serenamente la strada che va dritto al cuore della nostra profonda umanità, grazie al fatto che sono stati loro a solcarla, ad accollarsi la parte più faticosa della faccenda. “La tigre assenza” è un disco straordinario, canzone d’autore di altissimo livello, un’opera d’arte vera che poco o niente ha a che vedere con ciò in cui la musica si sta tristemente trasformando, un concept album eroico in una discografia mordi e fuggi; un album femminile in quanto rimane estremamente sottile ed intensa e fascinosa l’interpretazione che Maria Antonietta tira fuori quando canta, un album femminista perché si percepisce chiaramente l’energia che l’artista, anche in quanto donna, tira fuori per combattere i suoi demoni. Ed ucciderli. Aiello – “Romantico”: Un piacevolissimo disco pop, Aiello in questo “Romantico” si ritrova, fuori dai trick discografici, lontano da ciò che ci si aspettava da lui due anni dopo hit come “Vienimi (a ballare)”. Ma “Romantico” è anche una dichiarazione di intenti, la volontà del cantautore calabrese di lasciarsi andare ad un sentimentalismo pop efficace ed accessibile, che accoglie lo spettatore in un abbraccio dentro il quale può serenamente riconoscersi; senza vergogna, alla larga da quel machismo così in voga. Notevole il duetto con Gaia in “Non ti vado via”, letteralmente struggente “Libero (solo al pianoforte)”, che chiude l’album. Bravissimo. Calibro 35 – “Nouvelles Aventures”: Album intenso, avventuroso, che ti fa fare si con la testa, che ti restituisce il piacere dell’ascolto della musica fatta come si deve, con un’ispirazione profondamente artistica, che non getta fumo glamour in faccia all’ascoltatore. I Calibro 35 sono semplicemente esaltanti; prendete la macchina, percorrete la vostra città, finestrini chiusi, rimanete da soli con questo disco, isolati dal mondo ma con una buona visuale, osservatelo attraverso questo caleidoscopio, rileggetelo attraverso queste note, questo incalzare perenne, come una valanga di piacevolezza che non lascia scampo. Alla fine, ne siamo certi, ci ringrazierete. Myss Keta – “Profumo”: Myss Keta come non l’avevamo mai sentita cantare, anche perché, all’improvviso, “De botto…senza senso…” direbbero in “Boris”, appunto, canta, cosa finora mai fatta, e pure discretamente bene, intonata, cosa che sorprende visto che finora l’abitudine era di portarsi regolarmente a casa i pezzi con un parlato da vocalist di una discoteca che borbotta dopo una sbronza brutta a Porta Venezia. Certo parliamo di un tentativo di hit estiva, infatti viene ripreso il ritornello del classicone “Love Boat” di Little Tony, ma con gusto, ammiccando in maniera misurata, senza lasciarsi andare a troppe inutili volgarità; insomma, rispetto ciò che ci ha fatto sentire in questi anni è più che un pezzo azzeccato, è un risveglio da miliardario con le ali, è Roberto Baggio che ti chiede di vedervi perché vuole un abbraccio, sono tutte le tue ex che ti suonano al citofono perché vogliono chiederti scusa ammettendo di avere avuto torto, è un mondo in perenne primavera, è un tappo per il buco dell'ozono, la pace nel mondo, Charlize Theron che ti stalkera e qualsiasi sogno abbiate mai avuto e ritenete impossibile si realizzi mai. Non mollate, se Myss Keta propone un brano divertente, ben fatto e, wow, incredibile, ben cantato, tutto è possibile. Confortante. Chiello – “Mela marcia”: Un meraviglioso viaggio in un disagio poetico, attraverso un inferno la cui profondità possiamo solo percepire, con un ragazzo che sembra aggrapparsi alla musica, al proprio strepitoso talento, la propria strepitosa capacità espressiva, per venirne fuori, per raccontarcelo con l’onestà dei puri di cuore, quelli che non riescono a nascondere nulla. “Mela marcia” è un album cupo e intimo, è un album che non ti fa sentire solo quando credi che la tua visuale così appannata del mondo sia unica, quando ti senti imprigionato in quella verità che ti sei costruito da solo. chiello è un artista dalla spiccata sensibilità, incapace, e menomale, di trattenere per sé questo strascicare il mondo attraverso le parole, quasi con arrendevolezza, cantando dal fondo del barile e spiccando così il volo verso le più luminose stelle del cantautorato contemporaneo. Che bel disco. Omar Pedrini – “Diluvio universale”: “Ora cambia le regole/Spegni le tenebre” Omar Pedrini, artista vero, impegnato, da sempre, invita un’intera generazione a provare a raddrizzare le tante, troppe, storture di questo mondo; tutto ciò con un brano estremamente funzionante, che ti entusiasma, che ti tira fuori da casa per le orecchie, che ti costringe alla strada, all’asfalto, a crederci fino a tal punto insomma. Gran bel pezzo. Bentornato. Shade feat. Federica Carta – “Per sempre mai”: “Per sempre mai” è ciò che abbiamo decretato riguardo l’eventualità di riascoltare questo brano. Slings feat. Guè – “Stylist”: Intrigante il beat minimal, il giro ipnotico che crea, ma il testo è semplicemente deprimente, privo di spessore, solo egocentrismo a buon mercato che non possiamo più giustificare dal fatto che sia un elemento del rap. Non più nel 2023. Pardon. Nel 2023 rappresenta solo un dubbio dinanzi ai secchi per la raccolta differenziata, più o meno come il barattolo in vetro del sugo pronto, ma meno buono. LDA – “Granita”: Hit imbarazzante che richiama alla mente altre 30 hit, altrettanto imbarazzanti, così vieni risucchiato da un imbuto cosmico di imbarazzo che spazza via in un lampo ogni singola risposta non data alle interrogazioni a scuola, ogni singolo rifiuto di ogni singola ragazza mai ricevuto, quella volta che hai regalato un libro e dentro c’erano gli auguri di Natale di tua zia; tutta l’intera cartella di penosi ricordi riguardanti la tua esistenza trascinata nel cestino e volatilizzata via per sempre. Tutto grazie all’imbarazzo, autentico, che sgorga copioso attraverso i tuoi occhi in lacrime, all’ascolto di questa orrenda canzone, mentre realizzi che poteva andarti molto peggio. Ascoltate LDA e licenziate i vostri terapeuti. Galeffi – “Nirvana Van Gogh”: Una serie di fotografie ritrovate per caso in soffitta, il ricordo di un viaggio in auto sperando che la strada sotto le ruote non finisse mai, scatti veloci, come flash che si susseguono nella tua mente, distratti, improvvisi, forse anche alterati dal tempo passato, eppure così reali che ti torna su per le narici l’odore di quei panini azzannati, della sabbia depositata sul tappetino, della gola grattata a cantare Battisti, del sole sul viso, degli autogrill svaligiati per la chimica, di quegli occhi che riempivano i tuoi e che diventavano il centro di un’orbita sconosciuta, capace di rivoluzionare tutte le regole dell’astrofisica. Una canzone per ricordarti che una volta, almeno una volta, ti sei trovato nel posto giusto al momento giusto, al centro del mondo, senza aver bisogno di niente di più. Bravo. Rovere – “Glitch”: Davvero speciale la capacità dei Rovere di farci arrivare i brani da questa parte, di imboccarci letteralmente i loro pezzi, tanto che non puoi non amarli fin dal primo ascolto. Speciale anche la capacità di metterci dentro tutte le proprie umane domande, quelle che si pongono ragazzi come loro e che non troveranno mai risposte (ma questa delusione non vorremmo mai spoilerargliela, quindi Rovere, se state leggendo, ci dispiace molto). Tutto speciale insomma, soprattutto la loro concezione di fare musica da band, usanza ormai tristemente desueta, la voglia di raccontarsi, la puzza di sala prove, di un sogno che si fa sempre più tangibile, più vicino, forte di lavoro e sacrificio, della motivazione nel volerci capire di più. E belle canzoni, ovviamente. Baby Gang – “Innocente”: Mani in alto. Ok, capiamo che considerato che il disco è firmato da un ragazzo con guai con la giustizia può sembrare una boutade di dubbio gusto, ma ciò che vogliamo dire è che abbiamo cliccato play aspettandoci il peggio, il solito peggio, se vogliamo proprio mettere i puntini sulle “i”; e invece. E invece ci siamo trovati davanti alle orecchie dei brani con delle intuizioni davvero interessanti, a livello di produzione, si, ma soprattutto per ciò che riguarda la struttura dei pezzi, il modo in cui le barre sono incastrate tra di loro e risuonano tra lingua e labbra, con freschezza, maturità, gioco e gusto; e poi le tematiche, che con questo piglio, dobbiamo dirlo, totalmente nuovo, inedito, che prendono un’altra forma, anche quando rimbalzano su quegli stereotipi intorpiditi da questa scena che sembra che non abbia nient’altro da dire. Certo, l’iconografia pop legata al malaffare rimane, stralci di opere gangster movie fanno capolino qui e là un po' a casaccio, che estrapolate dal proprio contesto assumono un significato del tutto fuorviante, però i brani si fanno ascoltare piacevolmente, ti coinvolgono nel suo ambient che, per quanto plastificato, lo sappiamo, è quello, e da quel punto la visione per noi diventa decisamente più interessante. Bravo. MamboLosco – “Facendo faccende”: MamboLosco per questo suo terzo album decide di proporre una radiografia della sua idea di musica, venti tracce infatti nella discografia di oggi è praticamente un atto eroico, potrebbero intitolargli una via nel centro di Vicenza. Ma è evidente la sua volontà di seguire un percorso che sia artistico, il più possibile perlomeno, cosa che si nota, che riesce, sotto il profilo sonoro, davvero molto interessante, ma soprattutto davvero molto vendibile all’estero e qui evidentemente si fa sentire il passaporto statunitense che gonfia le sue tasche. È tutto intrigante, non perfetto ma intrigante, ancora fanno capolino quei soliti cliché legati al rap ma si percepisce dietro questo album un lavoro enorme e sensato, cosa, come ormai sappiamo, che non capita di regola nella scena hip hop. Venti brani sono tanti, più aggiungi strada e più aumentano le possibilità di inciampi, in questo senso MamboLosco mantiene un certo equilibrio, non cade mai, mantiene alto il livello dell’ascolto, gli appassionati del genere infatti si divertiranno parecchio, sia in pezzi in cui è da solo (a noi sono piaciuti “Milano”, “Come loro”, “Pull Up”) sia in quelli nei quali ospita colleghi della scena (soprattutto “Culo grosso” con gli Slings e “Mikado” con Emis Killa). Per apprezzare questo disco bisogna amare follemente questo genere, non basta esserne incuriositi, non basta farsi trascinare dalla wave che porta in quella direzione; ma non è certo una colpa, anzi, lo consideriamo un merito, il merito di un artista in maturazione, che sembra volersi mettere alle spalle quelle canzoni da bulli per cercare di proporre qualcosa che sia profondamente significativo per chi ascolta, aldilà di classifiche, stream, incassi, follower, e tutti quei veleni che stanno ammorbando la musica. Ci siamo arrivati? No. Ci arriveremo? Non abbiamo dubbi. Ogni grande viaggio comincia con un passo. Il Tre feat. VillaBanks – “Offline”: Sarà questione di gusto, sarà questione di impreparazione, di scarso talento, di scarso orecchio rispetto ciò che si propone, ma alle volte uno ascolta e si chiede, sinceramente perplesso: “Ma come è possibile? Ma come si fa? Ma perché? Ma chi è che tira fuori i soldi per ingolfare il mercato con della roba così brutta?”. Alle volte. E questa è una di quelle. Golden Years feat. Joan Thiele ed Ele A – “Verdad”: Un lampo di brano, una chicca, una perla, una roba estremamente cool sotto ogni punto di vista, dalla scrittura all’interpretazione delle bravissime Joan Thiele ed Ele A, che scopriamo sottile e tagliente. Golden Years crea l’atmosfera giusta, con questo ritmo sospeso, che fa respirare le strofe, alza la palla insomma, e loro la schiacciano senza pietà. E la partita è portata a casa. Una squadra fortissimi. Vale Pain feat. Neima Ezza – “In mezzo ai guai”: Molto interessante il modo in cui i due rapper, tra i più promettenti della scena italiana, permettano all’ascoltatore di entrare dentro il brano, ti sguazzare in mezzo a queste parole che vibrano sulle labbra. Diversi gli angoli da smussare, ma non ci dimenticheremo di riascoltarlo, di aspettarlo, di dargli il suo tempo, infatti lo abbiamo inserito nella nostra playlist su Spotify e quando lo shuffle ce lo riproporrà saremo felici. Roshelle – “Melancholia”: Un brano molto intimo che racconta di un incontro con una persona, una di quelle che scombussolano tutte le tue priorità, che ti rovesciano il mondo per terra, che ti costringono a mettere tutto in dubbio e che poi spariscono essendo, di regola, per definizione, indomabili. Roshelle rinuncia a sonorità spinte per dedicarsi ad un minimal estremo, quasi robotico, come se l’intenzione fosse di raccontare una favola 2.0. Intuizione corretta, arriva tutto benissimo, si percepisce la magia dell’incontro e la malinconia dell’addio, dei ricordi, della fuga, del pensiero che si tormenta. Brava. Valerio Mazzei – “Piumone”: Brano sottile, leggero, a tratti leggerissimo, quasi svolazzante, quasi inesistente. Buona l’idea del ritornello in cui il nostro Mazzei, uno dei portavoce della famigerata Gen Z, decide di cantare l’assenza di parole pensando a quella persona ormai persa; il resto è oggettivamente povera roba, a partire dal testo, che se sfogliate il vostro diario ai tempi della prima cottarella alle medie, qualcosa di più impegnato l’avrete scritta sicuramente. Boro Boro feat. Oriana – “Coco Chanel”: Una gran confusione di suoni, lingue, effetti, come se fosse la declinazione musicale stroboscopica su base reggaeton del più trafficato incrocio di San Juan. Boro Boro per l’occasione si fa accompagnare da Oriana, star argentina, compagna di Paulo Dybala, una di quelle artiste latine che fanno tutto e niente. Un po' come questo brano, che fa rumore come se fosse tutto e finisce per essere niente. Shari – “Alice In Hell”: Ve lo diciamo dall’esordio a Sanremo che Shari è un fenomeno vero, che riesce ad essere moderna senza rinunciare ad un taglio di voce che ti pietrifica, con quel graffio accattivante, quella sensualità innocente, quella fascinosa sofferenza. “Alice In Hell” è composto da tre brani, tutti perfetti, tutti delle mine, manifesto del miglior pop contemporaneo, quello che su produzioni muscolose, ben presenti, appoggia parole che pungono ed interpretazioni che devastano. Così è questo EP, così è Shari. Eccellente. Assurditè – “Gipsy Chic”: Assurditè è una delle più interessanti artiste ascoltate ultimamente, ennesima prova che non è che non esistono artiste italiane capaci di far bella musica, anche “vendibile” per un pubblico mainstream; è solo che noi abbiamo cinquanta nomi in testa, la maggior parte dei quali vanno in bagno rimanendo in piedi, e troviamo un’impresa ercoliana provare ad ascoltare musica nuova. E così poi magari rischiamo di perderci artisti potenzialmente fondamentali; questa premessa la riteniamo doverosa perché Assurditè è una di quelle artiste che non dovreste perdervi e “Gipsy Chic” è un EP perfetto, entusiasmante, che oscilla felicemente tra coolness, sensualità, intraprendenza e contemporaneità. In realtà potrebbe fare da manifesto per un’intera generazione di nuove cantautrici dalle possibilità illimitate; per dire, noi siamo rimasti fulminati da ogni singolo pezzo, servirà un bravo chirurgo per estrapolarci dalla testa “Moovitè”. Bravissima. Wax – “Wax”: “Wax”, primo disco di Wax, fresco concorrente di “Amici di Maria De Filippi”, è una finestra aperta su un buco nero, su uno spazio sonoro indefinibile e noiosissimo. Dentro ci trovi tutto ciò che va in questo momento, appiccicato “con la sputazza”, come diceva sempre la nostra prof quando si rendeva evidente che ciò di cui stavamo blaterando era stato studiato nel percorso che andava dal banco alla cattedra; ma non ci trovi dentro un concetto, un messaggio credibile, una qualsivoglia particolarità. Musica oggettivamente scadente, impacchettata e spedita velocemente sul mercato prima che quelli che oggi sanno chi è Wax vengano distratti dai prossimi concorrenti del talent Mediaset. Niente che sia o, toh!, perlomeno suoni, come autentico, come onesto, figlio di una necessità artistica che brucia dentro. Niente. Solo un’insalata di suoni contemporanei accompagnati da due parole messe in croce e pure male, senza ispirazione, senza guizzi, senza complessità. Fake. Orchestraccia – “La santa”: Il folk-rock de l’Orchestraccia arriva in Italia con anni di ritardo, tempo fa li avremmo osannati, oggi li ascoltiamo e pensiamo, ogni singola canzone, ogni singola volta, che altro non rappresentano che una versione della Bandabardò comprata tramite uno di quegli annunci proposti sui social. Tutti pezzi divertenti, tutti pezzi che mancano di anima e che fuori dal contesto del Primo Maggio di Roma non è che abbiano tutto questo grande appeal. Colla Zio – “In fondo al blu”: Forse tutto troppo sempliciotto, ma è chiaro che i Colla Zio non parlano a radical chic alla soglia dei quaranta; certamente un ragazzo vent’anni più giovane troverà questo nuovo singolo della boyband milanese decisamente più nelle sue corde. Che non sono le nostre e che non gli invidiamo. Oggi. Ma “In fondo al blu” è ballabile e divertente, colorata e moderna, la ascolti e non ti piace ma, da radical chic alla soglia dei quaranta, ti sale una rabbia per quel tempo in cui questo pezzo ti sarebbe piaciuto e, di conseguenza, anche una certa stima. Albe – “Così come sei”: Albe dimostra di avere carattere, buone doti interpretative, da un tono a ciò che canta. Certo, ciò che canta non va oltre il divertente, il caruccio, il simpatico, insomma niente di più di ciò che hanno detto di te le amiche delle tue amiche quando in passato hanno provato a venderti come potenziale partner; e nessuna era interessata. Ecco. Uguale. Dj Shocca – “Sacrosanto”: Rap fatto come il buon Gesù vorrebbe, un producer album a cura di uno dei maestri della old school italiana, otto brani che ti prendono per il collo e ti scuotono finché non ti svuotano, finché non sei letteralmente raso al suolo. Clicchi play, ascolti e pensi: “Roba seria”. Flame Parade – “Cannibal Dreams”: “Cannibal Dreams” non si ascolta, cliccare play significa lasciarsi andare, farsi conquistare, affogare in un oceano di musica che ha più a che fare con le nuvole che con l’asfalto, che ti accarezza prendendosi anche la sacrosanta libertà di portarti in luoghi sconosciuti, che ti costringe ad offrirti in sacrificio alla bellezza della musica, quando è bella, e a sto giro è bellissima. “Cannibal Dreams” è un album da regalare a chi vuoi bene. Molto bene. Cioè, se lo deve proprio meritare. Giovanni Ti Amo – “Dongiovanni”: Carattere e colori, brani semplici ma estremamente dinamici, buoni per tener viva l’attenzione, ricchi di quelle pennellate dai contorni vivaci che in qualche modo ti obbligano a stare a sentire ciò che dice, ti tirano dentro le canzoni e da quelle canzoni non vorresti uscire più. Sorpresa. Birthh – “Jello”: Birthh ti parla all’orecchio in una lingua che non ha confini. No, non l’inglese, ma la buona musica, il buon pop, quello che non ha bisogno di urla, di accelerate, di montagne russe emotive e plastificate. Solo la voce, splendida, di una ragazza, che riesce a creare un rapporto del tutto intimo con chi ascolta. Eccellente. Keli – “Groovy Doo”: I mezzi che la contemporaneità mette a disposizione dei musicisti è chiaro che aprono ad enormi possibilità, che spalancano i confini della musica che produci. Certo, bisogna saperli utilizzare, più che altro serve orecchio, serve gusto, per farli suonare, per renderli digeribili a chi ascolta oppure, se ti va, proporre un prodotto con riferimenti che niente hanno di italiano; un prodotto che non rappresenti una celebrazione, a tratti perfino lugubre, del grande cantautorato italiano e che nemmeno si metta in quella affollatissima scia rappresentata dal rap. Essere onesti con chi ascolta non significa necessariamente produrre musica intimista, profonda, puntare a quella nicchia di persone che di musica “ne sanno”; significa soprattutto essere onesti con se stessi. Questo secondo singolo di Keli è profondamente onesto, non fa nemmeno finta di volersi confrontare con la musica che gira dalle nostre parti, il riferimento è smaccatamente al pop americano e ciò che rende davvero interessante questa “Groovy Doo” è che riesce miracolosamente a non scimmiottarlo, a non diventare una macchietta; uno ascolta e, senza chiaramente fare stupidi paragoni, non pensa “Vabbè, se devo ascoltare Keli tanto vale ascoltare Harry Styles”, pensa “Ma guarda un po', nel mondo, a parte Harry Styles c’è anche Keli”. Non possiamo chiaramente conoscere il futuro di Keli, magari “Groovy Doo” è un colpo di fortuna, un’illuminazione istantanea e irripetibile, o magari abbiamo finalmente un artista ultrapop e che questo ultrapop lo fa proprio bene. Bravissimo.

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