AGI - È molto complesso scrivere di un disco del genere, di un disco talmente bello da provocarti un vuoto nel petto, uno di quei vuoti pesanti, un lutto, ma sereno, felice, un lutto di pace. È complesso specie perché poi quel vuoto devi raccontarlo e come fai a raccontare di qualcosa di così intimo, di quel twister all’altezza del plesso solare che ti tormenta dalla prima all’ultima nota?
“Gommapiuma” di Giorgio Poi è un disco che merita il Tenco, subito, anticipato, senza discussioni; è un lampo di genio cantautorale assoluto, non c’è un solo accordo storto, non c’è una sola tonalità sbagliata, una pausa, una virgola, niente. E per niente intendiamo proprio niente. Ti provoca questa sensazione che sta a metà strada tra la pace interiore, quella zen, da nirvana, e una sorta di imbambolamento con un sorrisetto ebete sulla faccia che sbuca fuori senza nemmeno che tu te ne accorga, come se ancor prima delle orecchie i pezzi siano stati assorbiti dalla pelle e dirottati verso cuore e stomaco; e quel sorriso fosse solo un tic di gioia assoluta che si manifesta sulla tua faccia.
Forse mai Giorgio Poi è riuscito a costruire attorno al suo timbro così etereo pezzi che lo valorizzassero in maniera così totale, il tema delle ombre, da non considerarsi come oscurità ma come stratagemma del sole per ammorbidire la realtà, ritorna in quasi tutti i pezzi e la sensazione, davvero, è quella di vivere per una mezz’ora in un mondo di gommapiuma, un mondo in cui ogni spigolo è smussato, i pugni sono carezze, le lacrime acqua da bere quando hai sete, le rughe cicatrici di euforia; la musica aria da respirare a pieni polmoni e il nostro effimero via vai che si adegua, che ci va a tempo, nessuno che va da nessuna parte, solo campi sterminati di poesia. Sarebbe bello trasferircisi in un posto del genere, Giorgio Poi ce ne regala giusto un pezzettino, ma è già abbastanza.
In questo disco si nota un’evidente maturazione nel tuo percorso…
Io ho fatto più fatica a scrivere questo disco, un po' forse per la situazione in cui è nato, il lockdown, un po' forse anche perché era il terzo disco. C’erano tutta una serie di elementi che mi complicavano un po' la vita nello scrivere, ma credo che principalmente sia stato il fatto di non avere una vita normale intorno a me, un mondo normale intorno a me nel momento in cui scrivevo. E questo, mischiato alla paura e alla preoccupazione di quel momento, faceva si che io fossi molto più esigente con me stesso e anche che fosse più difficile trarre soddisfazione da quello che facevo, e questo mi ha portato forse a scavare di più, ad accontentarmi dopo, rispetto al passato, a come avevo fatto prima. Quindi c’ho lavorato di più, banalmente.
A questo proposito, i cantautori della tua generazione, che hanno un po' sparigliato le carte nella discografia italiana, sentono un po' di pressione in più nel portare avanti i propri progetti? Sentono più forte la necessità di riconfermarsi? Di non rappresentare solo un momento di rottura nella cronologia della storia della nostra musica?
Con ogni disco si sente la necessità di dare conferma di quello che si è fatto in passato, necessita di essere una tappa in avanti all’interno di un percorso. Quindi non credo che questo tempo offra questa situazione più di altri, non credo, poi non lo so in realtà. Credo che quando uno scrive i pezzi per un nuovo disco pensa sempre “Dai, l’ho fatto tante volte, questa volta sarà un po' più semplice, verrà un po' più spontaneo, un po' più facile”, e invece nella mia esperienza non è mai così, è sempre più difficile. Ma credo sia così sempre, se uno vuole andare avanti deve mettersi alla prova, non c’è mai un punto in cui si arriva e uno dice “lo so fare, adesso posso andare in automatico”, quella cosa purtroppo non esiste.
C’è qualcosa in questo disco che a priori avevi deciso dovesse essere diversa?
Be, ho fatto diverse prove con i suoni…
Effettivamente il suono è diverso…
Si, è diverso rispetto al passato. Per esempio se c’è una chitarra questa volta è una chitarra soltanto, non è doppiata, il basso non è stereo ma è mono, anche la voce è più asciutta, è tutto più semplificato.
È un disco con una poetica molto chiara, ti sei chiesto nel 2021 dove si collocano ormai i dischi di questo tipo, dato che nelle classifiche troviamo solo sound più urban?
Questo io non lo so; da un lato, ma non vorrei sembrare arrogante, non è un problema mio, io faccio quello che piace a me e che ritengo sensato in questo momento. Poi il modo in cui una cosa viene percepita è fuori dal mio controllo, quindi io posso fare tutte le previsioni che voglio ma tanto non è detto che poi le cose vadano come penso io.
Anche questo disco, come quelli del passato, lo hai prodotto tu, da cosa dipende questa scelta in un periodo in cui spesso ci si affida al sound di producer esterni…?
Io ho iniziato a produrre le mie cose inizialmente per esigenza, prima ancora del mio primo disco, quindi mi sono organizzato per essere sempre autosufficiente, quindi una volta che ho imparato a fare quella prima cosa, tanto vale che la faccia io. Anche perché mi diverto moltissimo a cercare i suoni giusti per quel progetto.
Il featuring con Elisa com’è nato?
Con Elisa era un po' di tempo che ci sentivamo e avevamo programmato di incontrarci per lavorare a qualcosa assieme, questo però era il marzo del 2020, avevamo un appuntamento che poi abbiamo posticipato di un paio di settimane dicendo “Vediamo se le cose si aggiustano”, poi le cose non si sono aggiustate e nel frattempo io ho scritto un pezzo, perché in quel periodo stavo iniziando a scrivere, e gliel’ho mandato. L’ho scritto pensando a lei, non necessariamente per cantarlo insieme, poteva anche cantarlo solo lei; alla fine le è piaciuto.
Questo è un album che parte dall’ombra, proprio come concetto, quasi come caleidoscopio attraverso il quale guardare a tutto; cosa ti piacerebbe rimanesse di questo disco in chi lo ascolta?
Una sensazione ovviamente, e una sensazione è molto difficile da descrivere. Quello sarebbe l’ideale, ma poi ognuno reagisce a modo suo all’ascolto di una canzone o di un disco, però si, tendenzialmente una leggerezza sognante. Questo è quello che mi piacerebbe.
L’impressione è che sia un disco meraviglioso perché riesce a creare una sorta di vuoto poetico che poi uno è costretto a riempire con una riflessione accurata…
È bello il fatto che possa alleggerire l’ascoltatore di qualcosa, riempire quel vuoto più che altro con delle sensazioni, credo molto in questo: nella sensazione quasi come esperienza onirica.
Che idea ti sei fatto della considerazione che il governo ha del tuo mestiere?
È un mestiere che non è considerato fondamentale, semplicemente perché non sembra riguardare molte persone. Naturalmente se chiude una grande industria si crea un grave problema di occupazione ed è una cosa che riguarda più persone. I cantautori non sono tanti, i musicisti non sono tantissimi, forse è questo il motivo per cui un po' ci si è dimenticati di questo settore. Però soprattutto ci si è dimenticati di chi lavora nell’ambiente, nei concerti, purtroppo da parte dei musicisti c’è un errore pregresso, quello di non essersi mai organizzati veramente con dei sindacati, non c’è nessuno che tutela i musicisti, ci si è provati ad organizzare nell’ultimo periodo e qualcosa di interessante forse è venuto fuori, chissà se continuerà in futuro.