Con un po’ di malizia, i numerosi funzionari del Quirinale lo chiamavano “Parolina”, perché Gaetano Gifuni, venuto a mancare dopo una vita da grandissimo commis di Stato, aveva la rara capacità di parlar poco. E quando parlava poco, di parlare in realtà pochissimo.
E quando parlava pochissimo, di usare due al massimo tre parole dette sottovoce, ma che arrivavano a segno: all’orecchio, al cuore e alla mente dell’ospite di turno che sedeva, per l’occasione, alla scrivania che lui stesso, Parolina, gli preparava ogni mattina.
Lo Stato e la sua ragione
Ecco allora che Gaetano Gifuni può essere considerato simbolo ed essenza di quella continuità di Stato, istituzioni e (inevitabilmente) esercizio del potere che da sempre è necessaria alla perpetuazione del vivere civile. Abusato sarebbe l’accostamento a Richelieu o a Mazzarino (con cui però Gifuni qualche stilla di sangue la doveva condividere: entrambi della bassa costa adriatica, l’uno abruzzese e l’altro di Lucera, terra di giuristi dal sangue arabo importati lì da Federico di Hohenstaufen). Il suo era, semmai, un ruolo di suggeritore: prendere di fatto il posto del Re di Francia non solo non sarebbe stato agevole, ma soprattutto non gli sarebbe nemmeno piaciuto.
La sua personalità, infatti, risentiva dei libri – tantissimi – che aveva letto e degli studi giuridici – profondissimi – che aveva seguito. Pare che le sentenze della Cassazione, per non dire della Corte Costituzionale, che sapesse citare praticamente a memoria fossero infinite, come infiniti sono in effetti i pronunciamenti di quelle assise. Per essere così preparati bisogna sapere di giurisprudenza, di lettere e capire di politica, perché la politica altro non è se non la capacità di tenere insieme le persone magari con qualche opportuno distinguo. E al momento giusto Gaetano Gifuni sapeva suggerire all’orecchio del potente il distinguo migliore.
Sei presidenti ed un solo segretario
Grazie a questa capacità fu chiamato, giovane giurista di 43 anni, a guidare la segreteria generale del Senato. Oggi si applaudirebbe all’età, allora si teneva in conto la preparazione. Ce lo volle Amintore Fanfani, che godeva di meritata fama di talent-scout. Inevitabile quindi che Gifuni restasse a Palazzo Madama, e lo plasmasse a sua immagine e somiglianza, anche quando Fanfani ne lasciò il più alto scranno. Il Segretario Generale restò lui anche con i suoi successori. Nell’ordine: Spagnolli, Morlino, Colombo, Cossiga e Malagodi. Un intero pezzo di storia repubblicana vissuto a fianco della seconda carica dello Stato, felice di sentirsi suggerire ogni tanto una soluzione.
Dodici anni dopo uscì da Palazzo Madama, ma fu solo per entrare in un altro palazzo, quello dei Chigi. Fanfani, ancora lui, lo volle nel suo ultimo governo, con cui nel 1987 chiuse più o meno in bellezza la carriera. Ma non gli affidò certo un incarico di prima fila, come il ministero degli esteri. Un incarico, sia detto per inciso, che lo avrebbe costretto a prendere l’aereo un giorno sì e l’altro pure, mentre lui aveva notoriamente paura di volare. Nella sua saggezza, Fanfani gli affidò i rapporti con il Parlamento, dicastero delicato ed essenziale per un esecutivo che in molti ritenevano dovesse essere balneare, mentre il Presidente del Consiglio lo avrebbe preferito praticamente immortale.
Purtroppo per Fanfani avevano ragione quei molti, e la permanenza a Palazzo Chigi durò lo spazio di un mattino: dall’aprile al luglio del 1987. Ma questo non segnò l’eclissi di Gifuni, che seppe tornare a Palazzo Madama per restarvi ad accompagnare la Prima Repubblica fino alla sua consunzione.
Al Quirinale, mentre la Repubblica cambia natura
Nel 1992 – anno degli stravolgimenti della Lira, della morte di Falcone e Borsellino, di Tangentopoli – venne chiamato a ricoprire l’unico incarico che potesse essere ancora più importante del suo. Divenne segretario generale della Presidenza della Repubblica.
Questa volta lo volle con sé Oscar Luigi Scalfaro, che non aveva mai avuto occasione di lavorare con lui al Senato (la sua vita parlamentare si era tutta svolta a Montecitorio) ma che ne conosceva le capacità. Due temperamenti diversi: il notabile gentiluomo della Daunia, sempre in cerca del ragionevole compromesso magari basato su un distinguo, e il barone calabro-piemontese tutto d’un pezzo che per il compromesso ha sempre nutrito una certa allergia. Ma probabilmente fu proprio per questo che il secondo scelse il primo, essendo il Quirinale luogo della sintesi e dell’unità della Nazione e non parte politica che partecipa all’agone pubblico. Gli ottimi politici (e Scalfaro lo era) conoscono tutte le proprie personali caratteristiche e sanno ovviarvi, all’occorrenza.
Tutti i distinguo del Gran Suggeritore
In effetti, per tutto il settennato di Scalfaro, Gifuni ebbe modo di dar prova delle sue capacità. Non si allude qui al rapporto, per lo meno molto molto dialettico, tra Scalfaro ed un Silvio Berlusconi prima vittorioso, poi ribaltonizzato, infine sconfitto alle urne nel ’96. Sarebbe persino troppo facile.
In realtà Gifuni si rivelò prezioso anche dopo, prima gestendo le esuberanze di un centrosinistra a trazione prodiana che scopriva finalmente l’ebrezza del successo, e poi quella fase – molto più delicata, per moltissimi motivi – che si conclude con il primo sbarco a Palazzo Chigi, nella Storia, di un ex comunista. La mossa non irritava certo Scalfaro, ma a rassicurare, tranquillizzare, suggerire e sussurrare (qualche distratto direbbe: sopire e troncare) fu lui, il suo segretario generale, che mise all’opera la sua personalissima quanto estesa rete di contatti personali. E quando al Quirinale, il giorno dopo il conferimento dell’incarico a D’Alema, venne in visita di stato Giovanni Paolo II – vale a dire, uno dei più preoccupati – Scalfaro poté riceverlo e indottrinarlo con un discorsetto sulla laicità della politica.
In sintesi: Gifuni fu la mano senza la quale nessun nodo poteva sciogliersi. C’è da stupirsi, allora, se passato Scalfaro – anche questa volta – lui restò al suo posto?
A differenza del suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi di politica diretta, e di gestione diretta degli affari istituzionali, non aveva grande esperienza. Inevitabile la conferma, e lui rimase altri sette anni a gestire con delicatezza e imperturbabilità i difficili rapporti con centrosinistra diviso e rissoso ed un Berlusconi inebriato dalla riscossa.
Alla corte dei monarchi
Lo fece senza mollare un attimo il Quirinale, nemmeno quando Ciampi si assentava per impegni all’estero. Con l’ottima e reale scusa della sua paura per il volo, non lasciava mai il Palazzo. Anzi, quando il Presidente non c’era allora sì che era il momento di non allentare il controllo: un buon segretario generale ha cura della macchina dell’amministrazione, che è fatta di uomini e quindi tendente al rilassamento in assenza di stimoli costanti e prolungati.
Pare abbia fatto eccezione a questa legge bronzea solo una manciata di volte. Quando cioè il Presidente della Repubblica si vedeva ufficialmente invitato dai reali di Spagna o dalla sovrana d’Inghilterra. La Corte di San Giacomo val ben più di un Cremlino o di una Casa Bianca, e l’essere ammessi a quella dei Borbone, per un gentiluomo meridionale, ha un sapore tutto particolare.
Ma non è solo questo. Il fatto è che in quelle auguste casate, in quei blasoni immarcescibili, Gaetano Gifuni trovava la rassicurante conferma di quella che in fondo era la sua idea dello Stato: qualcosa di sempiterno, solido, stabile, rassicurante. Ma anche qualcosa da garantire, tutelare, quasi coccolare per impedire che possa essere stravolto o snaturato. Non a caso, oltre a Parolina, aveva anche un altro soprannome: Prudenziano.