AGI - Con un totale di 231 porti commerciali in Africa, le aziende cinesi sono presenti in più di un quarto degli hub marittimi del continente, essendo azioniste attive in 78 porti in 32 paesi. Lo sottolinea l'ultimo studio dell'Africa Center for Strategic Studies, un istituto affiliato al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, specializzato nella ricerca incentrata sulla sicurezza e sulla geopolitica. Secondo la ricerca, le aziende statali cinesi sono costruttori, finanziatori o gestori diretti di circa 78 porti nel continente, con una predilezione per i terminal nell'Africa occidentale (35 porti), seguiti da quelli sulle coste orientali (17), meridionali (15) e settentrionali (11). Si tratta di una presenza molto più capillare rispetto a quella di altre regioni: a titolo di paragone, l'Asia ospita 24 porti costruiti o gestiti dalla Cina, l'America Latina e i Caraibi circa una decina. In alcuni porti africani, le aziende cinesi dominano l'intero processo di sviluppo del porto, dal finanziamento alla costruzione, alla gestione e all'azionariato. Grandi conglomerati come la China Communications Construction Corporation (CCCC) si sono aggiudicati i lavori come appaltatori principali, per poi subappaltarne la gestione a società controllate come la China Harbour Engineering Company (CHEC): è il caso del porto nigeriano di Lekki, uno dei più trafficati dell'Africa occidentale, dove la CHEC ha eseguito i lavori di progettazione e costruzione dopo aver ottenuto un prestito dalla China Development Bank (CDB), acquisendo infine una quota finanziaria del 54% del porto che gestisce con un contratto di locazione di 16 anni. Oltre al porto di Lekki nell'Africa occidentale, le società cinesi detengono oltre il 50% delle azioni del terminal di Kribi in Camerun (esattamente il 66%) e di Lomé, in Togo (50%).
La presenza capillare della Cina nei porti africani rientra nel più ampio sviluppo della connettività globale da parte di Pechino lungo sei corridoi, altrettante strade e vari porti e paesi in tutto il mondo: la Belt and Road Initiative (BRI), un progetto di primaria importanza per la Cina e un'opportunità difficile da ignorare per l'Africa. Infatti, tre dei sei corridoi previsti dal piano cinese attraversano il continente e arrivano in Africa orientale (Kenya e Tanzania), nella regione egiziana di Suez e in Tunisia. Un fattore che conferma, ancora una volta, il ruolo centrale che il continente africano riveste nelle ambizioni globali di Pechino. Inoltre, il piano quinquennale della BRI (2021-2025) evidenzia il desiderio di trasformare la Cina in "un forte paese marittimo", come parte di una più ampia rinascita come "grande potenza" con "forze strategiche all'estero". Con lo sviluppo della Nuova Via della Seta, Pechino prevede anche di collegare nuovi corridoi commerciali e 16 paesi africani senza sbocco sul mare ai porti, come parte di una strategia per aprire nuovi mercati. Lo studio esamina anche le ricadute in termini di potere territoriale derivanti dalla gestione di contratti di locazione operativa o di concessioni portuali nei confronti della Cina. Attraverso le sue società, Pechino detiene concessioni operative in 10 porti africani, assicurandosi il controllo strategico degli accessi. Oltre ai vantaggi economici derivanti dalle attività marittime, infatti, l'operatore portuale determina l'assegnazione delle banchine, accetta o rifiuta gli scali e può offrire tariffe e servizi preferenziali alle navi e alle merci provenienti dal suo Paese. Il controllo delle operazioni portuali da parte di un attore esterno solleva quindi preoccupazioni in termini di sovranità e sicurezza, motivo per cui alcuni paesi hanno vietato la gestione da parte di operatori portuali stranieri. Tuttavia, nonostante i rischi di perdita di controllo, la tendenza in Africa è quella di privatizzare le operazioni portuali per migliorarne l'efficienza. Tra i rischi connessi alla gestione portuale affidata ad attori esterni, vi è anche quello legato al supporto logistico alle attività militari. Ad esempio, il porto di Doraleh a Gibuti, che Pechino aveva promosso per anni per scopi puramente commerciali, è stato ampliato per ospitare una struttura navale nel 2017. Da quell'anno, il piccolo paese del Corno d'Africa ha ospitato la prima base militare cinese all'estero, un modello che alcuni sostengono potrebbe essere replicato altrove nel continente.
La crescente presenza di aziende cinesi nei porti africani favorisce inevitabilmente anche gli obiettivi militari di Pechino. In 36 dei 78 porti in cui sono coinvolte aziende cinesi (oltre il 46 percento del totale) possono attraccare le navi della Marina dell'Esercito Popolare di Liberazione. È il caso dei porti di Abidjan (Costa d'Avorio), Port-Gentil (Gabon), Casablanca (Marocco), Tamatave (Madagascar), Maputo (Mozambico), Tincan (Nigeria), Pointe-Noire (Repubblica del Congo), Victoria (Seychelles), Durban e Simon's Town (Sudafrica). Nel corso degli anni, alcuni di questi porti sono stati adibiti a basi per esercitazioni militari dell'Esercito Popolare di Liberazione. Tra questi figurano i porti di Dar es Salaam (Tanzania), Lagos (Nigeria), Durban (Sudafrica) e Doraleh (Gibuti). Quest'ultima ha comportato esercitazioni con l'Etiopia, un paese senza sbocco sul mare da quando l'Eritrea ha ottenuto l'indipendenza nel 1993 e che sta conducendo un'aggressiva campagna politica per rivendicarla. Le truppe cinesi hanno utilizzato anche strutture navali e terrestri per alcune delle loro esercitazioni, tra cui la base navale di Kigamboni in Tanzania, il centro di addestramento militare completo di Mapinga e la base aerea di Ngerengere, tutte costruite da aziende cinesi.La scuola tecnica bellica Awash Arba aveva uno scopo simile in Etiopia, così come le basi in altri paesi. In totale, secondo il centro di ricerca americano, dal 2000 a oggi, l'Esercito Popolare di Liberazione ha effettuato 55 visite portuali e 19 esercitazioni militari bilaterali e multilaterali in Africa. Una presenza che si esprime, oltre che negli impegni militari diretti, anche nella gestione della logistica militare. Un caso tra i tanti è quello della Hutchison Ports, un gruppo statale cinese che detiene una concessione di 38 anni dalla marina egiziana per la gestione di un terminal presso la base navale di Abu Qir, a nord-est di Alessandria.