"L'Italia delle startup è periferia. Meglio un'agenzia digitale, ma internazionale"
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"L'Italia delle startup è periferia. Meglio un'agenzia digitale, ma internazionale"

"L'Italia delle startup è periferia. Meglio un'agenzia digitale, ma internazionale"

di Arcangelo Rociola
 Jacopo Paoletti, amministratore delegato di Comunicatica
Foto di Alessio Jacona  -  Jacopo Paoletti, amministratore delegato di Comunicatica

In Italia è nata una piccola holding europea del marketing digitale. Si chiama Comunicatica ed è la fusione di sei società e 4 startup presenti in 3 nazioni europee e 7 città. Fondata da Jacopo Paoletti, classe 1984, ex manager del marketing per diverse realtà nazionali ed internazionali, è riuscito a riunire nella holding un gruppo di giovani imprenditori, con una visione ed una presenza realmente paneuropea. Dentro ci sono esperti di marketing, sviluppatori, esperti di comunicazione e di informatica. Paoletti è piuttosto noto nell'ambito startup italiano. Ha investito in alcune startup prima di lanciarsi in questa avventura, che con le startup in realtà ha poco a che fare.

Partiamo dal tuo ultimo progetto, Comunicatica: la definite 'un'agenzia liquida', cosa vuol dire?
"Comunicatica è un'agenzia digitale. La nostra missione è aiutare i brand ad esprimere tutto il loro potenziale digitale, dando vita ad esperienze uniche e coinvolgenti, soprattutto online. Avere un modello liquido significa avere la capacità di adattarsi a organizzazioni di qualsiasi settore e dimensione, e calibrare la nostra rete di professionisti per qualsiasi esigenza e budget: possiamo essere piccoli e verticali quando serve, e diventare grandi ed orizzontali per chi ha bisogno di crescere, mantenendo sempre il miglior bilanciamento possibile fra costi e obiettivi".
Quindi cosa vi differenzia da una normale agenzia di marketing?
"Il nostro brand nasce dalla crasi delle parole Comunicazione e Informatica: siamo un mix di marketing, tecnologia, innovazione e creatività: un unico interlocutore, con una decennale esperienza online, in grado di dare risposte a 360° sul digitale: già oggi gestiamo siti web da milioni di accessi e app mobile con milioni di download, con clienti diretti ed indiretti; lavoriamo sia in ambito corporate che in quello startup e abbiamo un approccio digital distruptive verso ogni tipologia di target ed industry".
Conosci bene la startup scene italiana, in alcune startup hai anche investito. Eppure la tua prima esperienza da imprenditore hai deciso di farla con quella che non potremmo esattamente definire una startup. Perché?
"Credo che la startup scene italiana sia ancora una periferia, sia rispetto al mercato europeo (soprattutto francese e tedesco), sia rispetto ai mercati più maturi come USA e UK. I problemi sono molteplici, ma i principali sono sicuramente almeno tre: quello burocratico, quello degli investimenti e quello culturale. Sulla regolamentazione si è fatto molto (penso all'equity crowdfunding o alla defiscalizzazione degli investimenti), ma non è sicuramente abbastanza: in generale sull'impresa lo Stato grava ancora molto in termini fiscali, e le startup come tutte le aziende non sono esenti da questo. Sul fronte degli investimenti in Italia non c'è ancora un vero mercato del capitale di rischio: i venture sono pochi e di piccole dimensioni e le operazioni più interessanti sono ancora in mano ai business angel e per numeri bassissimi se li confrontiamo con quelli internazionali. Ma probabilmente il vero problema è culturale: non c'è una cultura d'impresa diffusa; il "fare impresa" dovrebbe essere insegnato già nelle scuole, e per un retaggio storico l'imprenditore è ancora visto come colui che sfrutta per arricchirsi e non come una fonte di ricchezza sociale da difendere, incentivare e tutelare".
I social raccontano che sei stato molto in giro per l'Europa nell'ultimo anno. A cosa ti è servito?
"Viviamo in un mondo molto più grande ma molto più piccolo, perché connesso. Oggi essere in una città la mattina e la sera in un'altra è normalità. Chattare con uno sviluppatore o con un cliente dall'altra parte del mondo è prassi quotidiana. Così ampliare i nostri confini, sia fisici che mentali, non è più solo una opportunità, ma un'esigenza. Dopo oltre dieci anni come manager nelle direzioni IT e marketing di alcune importanti realtà sia nazionali che internazionali, mi sono trasferito per alcuni mesi a Londra per ritornare a studiare, ma soprattutto per lavorare in un contesto più ampio ed internazionale.
E Londra cosa ti ha dato?
"Almeno per me è stato indispensabile per capire dove siamo, ma soprattutto per delineare gli scenari futuri. Io l'ho fatto relativamente tardi, a 33 anni, con già una carriera professionale alle spalle e magari qualche risultato in tasca, ma credo che chiunque oggi, soprattutto in un mercato del lavoro competitivo come il nostro, non può pensare di coltivare rendite di posizione di alcun tipo. Dobbiamo essere disposti a ridiscutere ogni giorno ciò che siamo ed i nostri modelli, perché il cambiamento tecnologico che stiamo vivendo sta correndo più veloce di quello culturale e sociale, e non aspetterà nessuno. Vedo 20enni straordinari che bussano alla porta, ed è evidente che il ricambio generazionale si sta facendo più stretto se a trentanni sei già un senior che deve essere disposto a passare il testimone per imparare cose nuove dai giovanissimi, ed essere capace a trasferire alle nuove leve la tua esperienza sul campo".
Comunicatica nasce che ha già un respiro 'europeo'. Quanto è importante per voi?
"Siamo una holding con 6 società partner (la creative agency bellunese Patrick David, la software factory italo-albanese Bit2Be, la digital agency milanese Syncronika, la web agency napoletana Creact e la mobile agency londinese Mobixee) e 4 startup partecipate (la prima startup tutta italiana nel food delivery Moovenda, la prima soluzione chatbot in ambito CRM che unisce Intelligenza Artificale e Umana Userbot, il marketplace sull’educazione Classup, e la piattaforma di influencer marketing per instagramer Shambles); siamo presenti in 3 Paesi europei e in 7 città, di cui 5 italiane. Il nostro board è composto da 8 membri, di cui 6 partner, con oltre 50 collaboratori da tutta Europa, e più di 30 solo in Italia. Lavoriamo in smart working da nazioni e città diverse, come se fossimo tutti nella stessa sede. Ma di sedi ne abbiamo 7, di cui 5 in Italia. La differenziazione geografica ci garantisce una forte capillarità territoriale e una continua e proficua contaminazione culturale, che è fonte di arricchimento per tutto il nostro team e soprattutto per i nostri clienti. Ci permette di "pensare glocal, facendo global", cioè di presidiare i territori e mantenere i loro valori e allo stesso tempo avere un respiro e una connotazione realmente internazionale.
Il focus, per ora, è molto legato all'Italia. C'è una ragione specifica? Avete individuato in Italia un'esigenza più forte di un business come il vostro?
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"In Italia non mancano le idee, ma troppo spesso mancano risorse e competenze per concretizzarle. Ma in un senso ideale la vera America oggi è qui. Le nostre aziende di ogni settore sono travolte dalla trasformazione digitale, ma nella maggior parte dei casi non hanno nemmeno le capacità interne per tracciare il proprio percorso futuro. Inoltre nel digitale italiano ci sono molti player che si autoproclamano esperti, ma troppo spesso senza alcuna base ed expertise. In questo scenario ci sono praterie immense e lo spazio di mercato è pressoché infinito".
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