
Potrebbe essere definito il paradosso degli Emirati Arabi Uniti. Il Paese è al tempo stesso settimo produttore e quarto esportatore di petrolio a livello mondiale, possiede ingenti quantità di gas naturale e compare tra i Paesi che vantano i programmi di energia rinnovabile più ambiziosi al mondo. Un requisito, in particolare quest’ultimo, non banale se si considera, come suggerisce Frederick Kempe, amministratore delegato dell'Atlantic Council, che la pandemia ha accelerato il processo della transizione energetica poiché “le fonti di energia rinnovabile sono state meno colpite e nel 2020 hanno superato le fonti di idrocarburi.”
Non c’è dubbio, in effetti, che gli Emirati Arabi vogliano fare da cassa di risonanza al processo di decarbonizzazione. Nel 2015 ha suscitato attenzione l’inaugurazione della sede dell’Irena, l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili nell’eco-città di Masdar City, alle porte di Abu Dhabi. L’istituzione, diretta dall’italiano Francesco La Camera, una sorta di “Opec delle rinnovabili”, è sorta nel 2009 e conta oltre 160 Paesi membri. Frutto della delicata tessitura diplomatica con cui gli Emirati Arabi hanno affermato le proprie credenziali, la sede dell’Irena su suolo emiratino rappresenta la sfida raccolta dagli Emirati Arabi nel sostenere l'accesso globale all'energia pulita.
È nel maggio scorso, inoltre, che gli Emirati Arabi hanno di nuovo fatto parlare di sé lanciando la propria candidatura a ospitare la prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sull’onda di Expo 2020 Dubai. In caso di successo della candidatura emiratina, nel novembre 2023 Cop28 potrebbe quindi svolgersi nella capitale Abu Dhabi, pronta a contribuire al raggiungimento degli accordi di Parigi di cui è stata “prima firmataria nel Golfo”, come ricordato dallo sceicco Abdullah bin Zayed, ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale.

L’agenzia di stampa nazionale Wam afferma che mai come ora l’economia verde e digitale vuole essere il punto di ripartenza locale dopo la pandemia da Covid-19. Gli Emirati Arabi, infatti, sono un paese energivoro: l’urbanizzazione, la desalinizzazione dell’acqua e l’industrializzazione che per ragioni climatiche richiede importanti tecniche di raffreddamento sono all’origine del forte impatto sulla domanda di energia.
La roadmap nazionale in materia di transizione energetica è dunque rigorosa e procede a marce serrate, unendo alla diversificazione economica le tappe stabilite dalla Energy Strategy 2050, con l’aumento del green nel mix energetico totale dal 25 al 50 percento entro il 2050, la riduzione di CO2 del 70% e l’efficientamento dei consumi individuali del 40%.
È in un quadro come questo che l’Italia, con le sue major dell’energia, può fare la differenza. Eni è presente negli Emirati dal 2018, impegnata nell'ampia catena del valore, a partire dalle rinnovabili. Come ha ricordato recentemente l’AD Claudio Descalzi, negli ultimi sette anni Eni ha investito più di 5 miliardi in ricerca e applicazione e ha “più di 7500 patenti, 480 progetti che coprono tutta la filiera”. Insomma, se gli Emirati possono essere strategici per l’Italia e per i suoi campioni nazionali, è senza dubbio vero anche il contrario.