Donald Trump non intende rinunciare alla possibilità – e, diciamolo, a quell’intimo, perverso piacere - di bloccare utenti su Twitter. Così nei giorni scorsi, attraverso i suoi legali, ha fatto ricorso in appello contro la decisione dello scorso mese di un giudice federale, per il quale il presidente Usa non può “bannare” utenti su Twitter perché sarebbe una violazione del primo emendamento della Costituzione americana, che tutela la libertà di parola e di espressione.
Curiosamente, il ricorso in appello arriva negli stessi giorni in cui Trump ha dovuto sbloccare i sette utenti che gli avevano fatto causa, ottenendo la sentenza che ha dichiarato incostituzionale il ban presidenziale. Il leader americano, noto per aver costruito su Twitter una parte consistente della sua strategia mediatica senza filtri, non ha mai preso bene le critiche sollevate dal suo stesso approccio aggressivo e ruspante, e ha bloccato spesso profili sgraditi. Tra i più celebri anche lo scrittore Stephen King e la modella Chrissy Teigen. Ma anche Votevets.org, un gruppo che rappresenta veterani di guerra; l’attrice Marina Sirtis (Star Wars); e poi giornalisti, ciclisti, cantanti, imprenditori, attivisti (qui Wired fece una lista parziale dei bannati). Tuttavia, nella massa degli esclusi dai cinguettii presidenziali, sette hanno avviato un’azione legale tramite un istituto noprofit, il Knight First Amendment Institute della Columbia University.
Si è arrivati così al 23 maggio, quando la giudice Naomi Reice Buchwald ha chiarito che i cittadini hanno il diritto di replicare direttamente ai politici che utilizzino i loro profili come un forum pubblico per condurre la loro attività ufficiale, come è in effetti il caso dell’account @realDonaldTrump. Anche perché bloccare un utente, oltre a toglierli il diritto di parola, vuol dire impedirgli di accedere alle informazioni pubbliche diffuse da quell’account.
La giudice non aveva obbligato Trump a sbloccare i reietti, dando però ad intendere che si sarebbe aspettata la fine del ban, una volta stabilito che era incostituzionale. Forse però non si aspettava che il presidente sarebbe arrivato al punto di ricorrere in appello.
Certo, il rapporto di Trump con Twitter è stato segnato da molte bizzarrie. Come i tweet rivolti a Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano, in cui ribadiva di avere un “bottone nucleare” più grosso; o in cui lo definiva “rocket man”. O come quando lo scorso novembre il suo account è stato disattivato per 11 minuti da un dipendente di Twitter (che era al suo ultimo giorno di lavoro nell’azienda). Per errore, si è giustificato poi l’uomo. Ma c’era chi voleva dargli il Nobel per la Pace.