Nel 2018, in tutto il mondo, 690 persone sono state uccise in esecuzione di condanne a morte. Il dato, diffuso da Amnesty International nel suo rapporto annuale sulla pena capitale, è soltanto indicativo, certamente sottostimato per il silenzio che avvolge Paesi come la Cina, eppure ugualmente "significativo e sorprendente", fa sapere l’organizzazione internazionale che si batte per i diritti umani. Rispetto all’anno precedente, infatti, il numero di persone uccise è diminuito del 30%: nel 2017 erano state 993.
In Iran e Arabia Saudita il dato peggiore. Mentre la Cina tace
Con rispettivamente 253 e 149 esecuzioni verificate, Iran e Arabia Saudita sono i Paesi dove la pena di morte uccide più persone. In entrambi i casi, segnala Amnesty, il dato reale è però quasi certamente più alto. Significa che l’accesso alle informazioni è limitato, motivo per cui il numero di morti segnalate è inferiore a quello effettivo.
Il caso della Cina, da questo punto di vista, è emblematico: i dati continuano a essere segreto di Stato e perciò impossibili da ottenere. Amnesty ritiene però che Pechino “abbia continuato a condannare e mettere a morte migliaia di persone” confermandosi quindi “il Paese che esegue la maggior parte delle sentenze capitali nel mondo”. Nel Paese di Xi Jinping la pena di morte è prevista per 46 reati, compresi quelli connessi alla droga e alla corruzione.
Hồ Duy Hải is facing the death penalty in Vietnam following an unfair trial.
— Amnesty International Australia (@amnestyOz) 10 aprile 2019
Despite a parliamentary committee calling for a retrial, Hồ Duy Hải has come close to being executed twice. Call on Vietnam to quash Hồ Duy Hải's death sentence > https://t.co/SAMSLAbhvh pic.twitter.com/Q2a4zlqkTZ
In netto calo le esecuzioni in Pakistan, dove le 14 persone uccise nel 2018 testimoniano un calo dell’84% rispetto al 2016. Trend opposto invece a Singapore: lo scorso anno le esecuzioni sono state 13, quattro volte di più di quelle del 2016. Nella piccola e ricchissima isola città-stato asiatica, dove è vietato persino fumare e bere in luoghi pubblici, sono i reati connessi alla droga il motivo principale delle condanne a morte.
Pena di morte ed equi processi non fanno rima da nessuna parte
Dall’Asia agli Stati Uniti, in tutto il mondo la pena di morte continua a far discutere. Amnesty segnala alcuni casi eclatanti dove i condannati non hanno potuto godere di processi equi. Tra questi, quello nei confronti di Ho Duy Hai, un ragazzo di origine vietnamita condannato a morte dopo l’arresto avvenuto nel 2008. Il giovane, allora 23enne, venne accusato di furto e omicidio, reati che lui stesso prima confessò e poi negò di aver commesso, spiegando di essere stato costretto a dirsi colpevole sotto tortura. Un caso, il suo, che lo vede nel braccio della morte da dieci anni, nonostante una sospensione della condanna ordinata nel 2014 dal presidente del Vietnam e dal pronunciamento della Commissione per gli affari giudiziari del Paese che riconobbe gravi violazioni del diritto processuale nei suoi confronti.
In attesa di esecuzione, cioè con una condanna a morte pendente, ci sono quasi ventimila persone in tutto il mondo, un numero che ogni anno cresce. Nel 2018 le nuove sentenze sono state 2.531 in 54 Stati. Soltanto negli Stati Uniti, dove lo scorso anno le morti sono state 25 (due in più del 2017), 2.654 persone aspettano nel braccio della morte: sono quasi il doppio di quelle uccise dal ‘76, l’anno in cui la pena capitale venne ripristinata, a oggi.
Nel frattempo molte cose sono cambiate: venti Stati hanno abolito la pena di morte, ultimo dei quali Washington dove la Corte Suprema l’ha bocciata perché “applicata in modo non equo, a volte in base al luogo dove è avvenuto il crimine, alla disponibilità di risorse di bilancio o a seconda della razza”.
Alcuni dei 30 Stati che la mantengono, però, continuano a pianificare le esecuzioni: spulciando il calendario del Death Penalty Information Center se ne trovano di programmate fino al 2023. La più imminente? Quella di Christopher Price: la sua morte arriverà, a meno di sorprese, tra poche ore, l’11 aprile in Alabama. Inutile la battaglia della Equal Justice Initiative, la no profit statunitense che sostiene che il ragazzo, accusato di aver ucciso un uomo nel 1991 nel corso di una rapina, potesse godere di attenuanti avendo subito violenze dal padre in tenera età. Da segnalare, infine, che nei 40 anni di pena di morte negli Usa 160 persone condannate sono state liberate prima dell’esecuzione: erano innocenti ingiustamente mandati a morire.