AGI - "I molti fronti aperti dalla Casa Bianca – dazi, offensiva militare in Iran e diplomatica contro la Russia, crisi mediorientale – hanno distratto l’opinione pubblica da un dibattito che nei mesi scorsi era stato molto vivace: quello sul futuro delle università americane.
I tagli ai fondi federali ad atenei "ribelli" come Harvard, il giro di vite nella concessione di visti agli studenti internazionali e i blitz dell’immigrazione nei campus minacciano di far venir meno alle istituzioni culturali risorse senza le quali rischiano di dover abbattere la propria offerta accademica.
La tesi di Weitz
Ma, scrive Joshua Weitz su Science Matters, mettono in crisi anche le prospettive della ricerca. Secondo Weitz, diverse agenzie chiave – tra cui NIH (National Institutes of Health), NSF (National Science Foundation), NASA, DOE Office of Science e USDA – vedranno ridursi drasticamente i fondi in termini reali, una volta considerata l’inflazione. Sebbene la Casa Bianca enfatizzi “investimenti nella scienza e nella tecnologia”, la realtà dei numeri racconta una storia diversa. L’intero ecosistema scientifico americano, dalla ricerca di base alle applicazioni più strategiche, è messo a rischio da “una visione miope che sembra ignorare l’importanza della continuità e del sostegno pubblico all’innovazione”.
Weitz evidenzia come il calo degli investimenti pubblici nella scienza non sia solo una questione di bilancio, ma un attacco al valore stesso della conoscenza come bene pubblico. Il ridimensionamento dei finanziamenti mette in crisi laboratori, università, startup deep tech e l’intera filiera della ricerca, incidendo sulla capacità degli Stati Uniti di affrontare sfide cruciali come pandemie, cambiamento climatico, sicurezza nazionale e competitività tecnologica globale.
I tagli rischiano di avere effetti duraturi e dannosi sul progresso scientifico americano, minando la leadership globale degli Stati Uniti in settori strategici e compromettendo il futuro delle prossime generazioni di ricercatori. Ma c’è un elemento non trascurabile: istituzioni accademiche europee di grande prestigio potrebbero attrarre studenti e ricercatori internazionali nonostante dispongano di mezzi decisamente inferiori a quelli statunitensi.
Effetto Trump e scenari
AGI ha chiesto a Gabriella Lombardo, direttrice della European Alliance for Social Sciences and Humanities, se l’eventuale riduzione dell’accesso alle università statunitensi per studenti stranieri possa tradursi in un’opportunità strategica per gli atenei europei. “In 2024, gli Stati Uniti sono stati una delle quattro destinazioni principali degli studenti internazionali insieme a Regno Unito, Canada e Australia, che insieme assorbono più della metà della popolazione internazionale degli studenti universitari”, dice. “Fra il 2014 e il 2022, gli studenti internazionali sono cresciuti del 50% nei Paesi dell’Ocse.
Ovviamente l’attacco alle università dell’amministrazione Trump sta avendo un effetto immediato sulla scelta degli States come destinazione privilegiata e gli studenti internazionali si stanno già muovendo verso altre destinazioni”.
“Le università dell’Ivy League continuano ad avere un’attrazione particolare”, aggiunge Lombardo, “ma le tensioni sui visti e – come nel Regno Unito – le difficoltà di poter rimanere a lavorare negli States limitano almeno una certa fascia di aspiranti. Quanto gli atenei europei possano capitalizzare lo vedremo dai dati quanto prima, ma l’Europa non è tutta uguale e alcuni Paesi offrono condizioni migliori di altri. Il nord-ovest dell’Europa rimane come sempre la parte più interessante, incluso il Regno Unito che, nonostante abbia cambiato le regole dei visti e delle permanenze, sicuramente rimane ancora abbastanza centrale nelle scelte del mercato universitario internazionale”.
Tuttavia, aggiunge Lombardo, i Paesi europei hanno forti competitori in Australia e Asia. “Australia a parte, anche la Nuova Zelanda ha iniziato una serie di incentivi per attrarre studenti. La Corea del Sud ha incrementato la popolazione studentesca soprattutto con l’arrivo di americani, oltre che vietnamiti e cinesi. Un mercato in forte crescita è quello privato che offre corsi in diversi Paesi, lauree quasi disegnate su misura, e la possibilità di creare reti per le carriere del futuro con stage in società prestigiose e così via”.
Nuove possibilità per l'Europa
Su quali azioni dovrebbero intraprendere le università europee per attrarre studenti internazionali, Lombardo è cauta. “Teniamo presente che il settore universitario rimane sotto sovranità nazionale e quindi non tutti i Paesi europei hanno lo stesso approccio. La Germania, la Francia e l’Irlanda hanno lanciato diverse iniziative per attrarre studenti con particolari incentivi, con aperture soprattutto verso l’India e, nel caso dell’Irlanda, verso alcuni Paesi africani. Altri Paesi invece stanno perdendo interesse. Per esempio i Paesi Bassi hanno tagliato i fondi alla ricerca e rafforzato l’obbligo di studiare in olandese dopo che una grossa percentuale di corsi era in inglese, e i partiti nazionalisti hanno spostato l’attenzione sull’esigenza di riservare più posti agli studenti olandesi. Anche l’Italia ha inserito nuove regole per studenti che devono rimanere più di 90 giorni, regole che hanno suscitato perplessità e scoraggiato il mercato”.
Sulla capacità delle università europee di accogliere un numero crescente di studenti extraeuropei, Lombardo non ha dubbi. “Negli ultimi dieci anni hanno intensificato le strategie di internazionalizzazione con molti corsi in inglese e molto supporto per gli studenti stranieri”, dice. “Le risorse cui attingono sono nella maggior parte degli Stati membri fondi statali e solo pochi Paesi chiedono il pagamento di tasse universitarie di una certa entità: le tasse annuali in Europa variano da un minimo di zero a un massimo di diecimila euro solo per pochi Paesi e per certe fasce sociali. Rimane però il fatto che il movimento degli studenti universitari internazionali è limitato: non parliamo mai di numeri particolarmente alti”.
Negli anni ’60, ricorda Lombardo, la percentuale degli studenti internazionali sulla popolazione studentesca globale era del 2%. “Questa percentuale era invariata nel 2015 (dati Unesco), con uniche eccezioni per i Paesi europei che fanno parte del programma Erasmus e gli Stati Uniti, dove la percentuale sale al 5-7%”, spiega. “Studiare fuori dal proprio Paese rimane una scelta per pochi, tenendo conto, ovviamente, che la popolazione studentesca è in crescita”.
Nessuna crisi in vista
Lombardo esclude il rischio che un afflusso repentino possa mettere in crisi il sistema universitario pubblico europeo, già sotto pressione. “La Commissione Europea ha investito sulle European University Alliances, gruppi di università che, con alcuni fondi di Erasmus+, hanno costituito collaborazioni sulla didattica con un focus sulla mobilità. Ovviamente alcune di queste reti fanno anche collaborazioni di ricerca, tuttavia si trovano a confrontarsi con i limiti imposti dalle nazioni. Faccio parte dell’advisory board di una di queste reti, e ne conosco diverse. Mentre da un lato programmano, per esempio, di sviluppare micro-crediti (corsi brevi certificati), dall’altro devono fare i conti con le regole nazionali che, per esempio, non prevedono che uno studente possa avere alcuna certificazione se non è registrato a tempo pieno, o che non possa restare nel Paese per più di 90 giorni senza dover richiedere visti e permessi di soggiorno particolari”.
"La prospettiva di una laurea europea è ancora molto lontana, e diversi Paesi membri, ma anche università, soprattutto quelle di prestigio, non supportano l’idea”
L'importanza delle Università
Secondo Lombardo, gli atenei restano un baluardo dello sviluppo sociale: “formano i nostri ragazzi, preparano le nostre società all’inaspettato, ai cambiamenti, fanno ricerca d’avanguardia su tutte le aree disciplinari”. E in questo contesto il ruolo delle scienze umane e sociali nella costruzione di un’offerta formativa europea competitiva e distintiva rispetto al modello americano è “fondamentale”. I Paesi europei “godono di condizioni di vita ottimali, un equilibrio fra condizioni economiche buone e attenzione sociale (assistenza, educazione, ecc.). Tutto questo non si può dare per scontato”, dice Lombardo. “Le politiche sociali europee sono frutto di ricerca accurata di ricercatori europei, che al momento rimangono leader in termini di pubblicazioni di alta qualità”.
Finora in Ue “si è investito poco rispetto alle ambizioni”, lamenta Lombardo. “A maggio Ursula von der Leyen ha lanciato l’iniziativa Choose Europe con un investimento di 500 milioni: per attrarre ricercatori da tutto il mondo, ma in realtà mirato a quelli dagli Stati Uniti. Ma si tratta di noccioline. Se l’idea è di rendere l’Europa più attraente, nessun Paese è abbastanza competitivo rispetto al mercato statunitense. L’Europa è sempre stata un centro di libertà accademica, ma il problema è molto più ampio e grave. L’offensiva di Trump non è un caso isolato, ma fa parte di una rete ampia, ben collegata e guidata da un progetto preciso e chiaro: screditare l’accademia come istituzione. Dipende dai nostri politici decidere da che parte stare”.