AGI - Il Dalai Lama, leader spirituale tibetano in esilio, ha dichiarato che l'istituzione, che ha 600 anni, continuerà a esistere dopo la sua morte, una decisione che avrà un profondo impatto sui suoi seguaci buddisti. "Affermo che l'istituzione del Dalai Lama continuerà", ha dichiarato in un video trasmesso all'inizio di un incontro di leader religiosi nella città himalayana indiana dove vive da decenni.
Nel video messaggio trasmesso in apertura di un incontro con i massimi leader religiosi tibetani, il Dalai Lama ha riferito di aver ricevuto "messaggi attraverso vari canali da tibetani in Tibet che lanciavano lo stesso appello", motivo per cui "in accordo con tutte queste richieste, affermo che l'istituzione del Dalai Lama continuerà", ha quindi annunciato, secondo una traduzione ufficiale.
Ha precisato, inoltre, che la responsabilità dell'identificazione del XV Dalai Lama "sarà di esclusiva competenza" del Gaden Phodrang Trust, l'ufficio del Dalai Lama, con sede in India. "Ribadisco che il Gaden Phodrang Trust ha l'autorità esclusiva di riconoscere la futura reincarnazione; nessun altro ha la stessa autorità per interferire in questa questione", ha aggiunto.
Il Dalai Lama e migliaia di altri tibetani vivono in esilio in India da quando le truppe cinesi hanno represso una rivolta nella capitale tibetana Lhasa nel 1959. La sua età avanzata - il 6 luglio festeggerà 90 anni - ha anche suscitato preoccupazione per il futuro della leadership tibetana e per la delicata questione della sua successione. Mentre la Cina lo condanna come ribelle e separatista, il Dalai Lama, riconosciuto a livello internazionale, si descrive come un "semplice monaco buddista". Molti tibetani in esilio temono che la Cina nomini un successore per rafforzare il controllo su un territorio in cui ha inviato truppe nel 1950.
L'eterno braccio di ferro con Pechino
Il Dalai Lama da solo non ha l’autorità di nominare un successore. Il monito arriva dalla Cina tramite la stampa ufficiale, in un messaggio politico diretto al massimo leader del buddhismo tibetano nel giorno dell’apertura della XV Conferenza Religiosa Tibetana a Dharamshala, in India, incentrata sul futuro della successione del Dalai Lama a pochi giorni dal suo novantesimo compleanno, il 6 luglio. La stampa ufficiale cinese ha assicurato che la reincarnazione del Dalai Lama “non potrà mai” essere “decisa da un singolo individuo”.
Li Decheng, vicedirettore del Centro di Ricerca Tibetologica Cinese, gestito dallo Stato, in un articolo pubblicato dall’agenzia ufficiale Xinhua osserva che “la reincarnazione dei Buddha viventi non è affatto una mera questione religiosa interna. Al contrario, riflette la sovranità nazionale, l’autorità governativa, i principi religiosi e i sentimenti dei fedeli laici”.
Lo studioso afferma quindi che “non c’è mai stato un caso in cui la decisione sia stata presa esclusivamente dall’individuo reincarnato”, sottolineando che il sistema della reincarnazione “è indissolubilmente legato al sostegno del governo centrale”. “Qualsiasi tentativo di politicizzare la reincarnazione dei Buddha viventi si rivelerà in ultima analisi vano”, avverte Li.
Un altro articolo, pubblicato sempre da Xinhua, definisce “l’ennesima assurdità” la previsione, avanzata dal Dalai Lama in un libro pubblicato quest’anno, secondo cui il suo successore sarebbe nato fuori dalla Cina. “In sostanza, la sua intenzione rimane la stessa: negare i rituali religiosi tradizionali e le convenzioni storiche che hanno governato per secoli il sistema di reincarnazione del Dalai Lama, e manipolare il processo per i propri scopi”, denuncia l’Università Superiore Cinese del Buddhismo Tibetano, un’altra istituzione controllata da Pechino.
“Qualsiasi presunta reincarnazione che aggiri i rituali tradizionali, svolta sia all’interno che all’esterno del territorio cinese, sarà priva di legittimità religiosa e non sarà riconosciuta in nessuna circostanza dai seguaci del Buddhismo tibetano”, sostiene l’istituzione.
Entrambi gli articoli ribadiscono che l’elezione debba avvenire secondo un sistema di selezione tramite urne d’oro, come avvenuto nel 1995 con l’elezione del Panchen Lama, seconda autorità del buddhismo tibetano dopo il Dalai Lama. Una nomina che Pechino ha imposto e che è stata respinta dal Dalai Lama in esilio, che aveva indicato un proprio candidato.
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