AGI - Lo scrittore iraniano Mohammad Tolouei, 46 anni e di base a Teheran, è la persona giusta a cui chiedere di raccontare lo stato d’animo degli iraniani in questo momento sospeso tra il frastuono delle bombe ancora nelle orecchie, un cessate il fuoco fragile a cui aggrapparsi e la convivenza con un regime reso più repressivo e paranoico dal colpo subito dagli attacchi statunitensi e israeliani, in una guerra solo apparentemente finita.
La trama del suo ultimo romanzo, ‘Enciclopedia dei sogni’ (pubblicato da Bompiani con traduzione di Giacomo Longhi), è intessuta con i sogni che tormentano la giovane protagonista Elham e che costituiscono una sorta di diario dei desideri collettivi di un popolo da decenni oppresso.
Mentre Israele attaccava l’Iran, lo scorso 13 giugno, lei era in Europa a presentare il suo libro e il tour sta continuando in questi giorni in Italia. Che notizie le arrivano dalla sua famiglia e dagli amici?
Le notizie da Teheran sono cariche di paura e panico in questi giorni. La gente non è abituata a vivere in guerra. Per un po', la guerra è stata qualcosa che aleggiava nell'aria, ma non così vicina e reale. Credo che in questo momento, mentre ci parliamo, tutti siano in attesa: non sanno se esista veramente un cessate il fuoco, se sia stato violato. Le persone sono stanche di stare dietro alle analisi, la realtà è che entrambe le parti in guerra stanno manipolando l'opinione pubblica ed entrambe temono la rispettiva disgregazione sociale.
La guerra ha riacceso la discussione sulla possibile fine della Repubblica islamica; che richiamo hanno ancora i valori rivoluzionari nella società iraniana?
Non credo che la Rivoluzione del 1979 possa più avere un effetto ideologico. In questi anni, molti dei suoi valori originari sono cambiati. Non bisogna dimenticare che la Rivoluzione iraniana non è stata assolutamente islamica: molte delle posizioni rivoluzionarie erano allineate con la sinistra del resto del mondo. La Rivoluzione è stata realizzata da un mix di sinistra stalinista, castrista e Islam sciita. Questo è un aspetto che viene spesso dimenticato. La sinistra classica che propagava le sue idee non esiste più, ma i valori di sinistra permangono e sebbene siano molto difficili da realizzare, questi offrono comunque speranza alla gente. Per questo, tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno avuto come slogan la distribuzione della ricchezza. Credo che qualsiasi governo venga formato in Iran debba trovare una soluzione a questi due problemi: quali valori creare per mantenere unita la popolazione e come distribuire la ricchezza.
Nel viaggio on the road che i due protagonisti del suo romanzo compiono da Teheran al Golfo Persico ci sono rimandi a tradizioni e simboli della cultura persiana pre-islamica. Si tratta di richiami che ha usato anche il regime di recente, perché?
Anche dopo il regno dei Qajar, quando Pahlavi puntava al potere, usò la stessa retorica nazionalista per formare un governo. In questi giorni di guerra, gli iraniani si sentono profondamente soli: non sentono la vicinanza né degli arabi della regione, né dei Paesi confinanti, né degli occidentali. Si sentono isolati e il loro unico sostegno identitario è questo glorioso passato storico. La Repubblica islamica, che ha insistito nell'opporsi a questi simboli pre-islamici, li fa rivivere quando si sente minacciata.
A Teheran pochi giorni prima della guerra, il Comune ha eretto una statua in bronzo di 16 metri di Arash (figura eroica della mitologia persiana simbolo del sacrificio): è un arciere che scocca una freccia per segnare il confine. La realtà è che questo movimento nazionalista-arcaico è radicato nella grandeur del popolo iraniano. Negli ultimi mille anni, ogni potere ha promesso di costruire una grande civiltà legandosi ai fasti passati, è qualcosa di profondo e l'unica volta che in tempi moderni gli iraniani hanno avuto quest'immagine di grandezza del Paese è stato negli ultimi dieci anni dello scià Pahlavi.
Alla luce di questo, quanto è realistico il ritorno al potere del principe ereditario, Reza Pahlavi?
Il sentimento a cui mi riferisco non coincide con la nostalgia per la monarchia. Qualsiasi governo in grado di produrre e gestire questa retorica di grande potenza può governare il nostro popolo. La Repubblica islamica ha provato ad adottare la stessa retorica a cui, però, ormai nessuno crede, così come nessuno crede che il figlio dell’ultimo scià sia in grado di far rivivere la grandeur persiana. Certo, Reza Pahlavi ha dei sostenitori, ma credo che la maggior parte di loro viva nella diaspora e si tratti solo di una minoranza molto rumorosa come ogni estremismo.
Nel suo romanzo, Elham e Ebrahim si incontrano con un appuntamento combinato dalle famiglie e nel loro viaggio per conoscersi passeranno una notte insieme in albergo, fingendosi sposati, violando la legge. Quanto è profonda oggi la distanza tra la vita reale degli iraniani e le regole imposte dal regime?
L’Iran è un Paese molto vasto, con una varietà di persone e credenze molto diversificata. Tradizione e religione sono profondamente radicate e la famiglia è un'istituzione più repressiva del governo. Molte libertà devono prima essere accettate dalla famiglia, che rimane un’istituzione autoritaria. Al contrario, i giovani iraniani si considerano molto simili agli altri giovani all’estero, si considerano cosmopoliti. Parlano almeno un'altra lingua, sono connessi a Internet ogni giorno e sono influenzati dalle stesse tendenze del resto del mondo. Fino a poco prima della guerra, il problema che affliggeva i ragazzi era dove trovare le popolari bamboline Labubu. In tutti questi anni, il governo ha cercato di imporre uno stile di vita a tutti e ha fatto molta propaganda. Oltre agli strumenti di repressione governativa, la famiglia religiosa-tradizionale è anche la custode di questi valori. Esiste un profondo divario tra la grandezza che professa il governo e ciò che i giovani desiderano. Quando questo divario aumenta, i giovani scendono in piazza, protestano, il governo puntualmente li reprime con la forza, ma alla fine i cambiamenti avvengono, a volte legalmente e a volte solo nella prassi (come accade con obbligo del velo, ndr). A volte, queste libertà convenzionali sono persino più importanti dei valori impressi nelle leggi, perché sono accettate in istituzioni più strettamente tradizionali come la famiglia.
Una delle prime vittime dei raid israeliani su Teheran è stata la giovane poetessa Parnia Abbasi. Come sta vivendo la comunità di artisti e intellettuali, tradizionalmente contraria al regime, questa guerra? Si teme un nuovo giro di vite?
Molti intellettuali si sentono soli. Sono stati screditati per tutti questi anni. In un certo senso, la parola stessa "intellettuale" è dispregiativa in Iran. Il governo ha fatto del suo meglio per screditare gli intellettuali, che non hanno alcuna influenza sul popolo. C'è un detto molto famoso sulle masse popolari in Iran: questo è un Paese in cui si canta “lunga vita al popolo" al mattino e “morte al popolo" la sera. Nel secolo scorso, forze straniere hanno interferito più volte nella politica interna iraniana e ogni volta hanno portato disastri per il popolo. I testimoni di questi eventi sono ancora vivi, ed è per questo che, nonostante tutta la propaganda gli Stati Uniti e Israele non sono riusciti a portare dalla loro parte gli intellettuali. Ma succede così anche nel mondo occidentale: ormai i governi preferiscono le celebrities ai filosofi come icone. In questi giorni, mi sono spesso chiesto a cosa mi oppongo? A un attacco straniero all'Iran che voglia imporre un cambiamento? E la risposta che gradualmente mi è diventata chiara è stata molto strana: vorrei che se mai ci fosse un cambiamento, questo sia il risultato di uno sforzo comune e di una comune comprensione della sua necessità. Non voglio un evento preventivo o un copione scritto a tavolino. Credo nel cambiamento come risultato di uno sforzo comune. Ma questo attacco straniero non ha fatto emergere questa comunione e temo piuttosto che tutti questi anni di sforzi saranno sprecati, e che il governo imprigionerà ed eliminerà ancora di più chi gli si oppone, con il pretesto dello stato di guerra.