Dal 14 agosto dei passeggeri speciali ‘popolano’ gli autobus del centro di Seul: le statue a grandezza naturale delle ‘donne di conforto’ coreane hanno fatto il loro ingresso anche sui mezzi pubblici della città. Un modo per non dimenticare queste giovani, tra i 13 e i 19 anni, che fino alla fine della seconda guerra mondiale furono costrette a lavorare come schiave sessuali per i soldati giapponesi. Le statue rappresentano delle ragazze a piedi nudi che indossano l’hanbok, il tradizionale abito coreano, e sono sedute sui sedili del bus con le mani appoggiate sulle ginocchia.
Per non dimenticare
Non è la prima volta che queste donne vengono ricordate attraverso delle statue, simbolo di quegli anni, tra il 1932 e il 1945, in cui l’esercito imperiale giapponese adescò nelle sue ‘comfort station’ - dislocate in ogni regione dell’Asia orientale - tra le 80mila e le 200mila donne e bambine. La maggior parte di loro proveniva dalla Corea, ma ve ne erano tante altre di origine giapponese, cinese, filippina o vietnamita. Sedotte da offerte di lavoro illusorie che promettevano mansioni di ogni genere in fabbriche o ristoranti, o talvolta rapite mentre passeggiavano per strada, migliaia di donne e bambine furono deportate nelle fabbriche del sesso. Vi rimasero per mesi o anni, subendo l’umiliazione di orde di soldati che facevano ritorno dai campi di battaglia e che potevano abusare dei loro corpi a proprio piacimento.
“Le statue sono state installate per ricordare a tutti i sudcoreani la sofferenza di queste donne”, ha raccontato al Guardian Rim Jin-wook, il capo del Dong-A Transit, la compagnia dei mezzi di trasporto pubblici della capitale coreana.
Le statue rimarranno sugli autobus fino a fine settembre, prima di essere esposte in alcuni spazi pubblici del Paese. Inoltre ogni 14 agosto si renderà omaggio a queste donne con una giornata nazionale di ricordo e nel 2020 è prevista l’apertura di un museo dedicato alle ‘comfort women'.
Le critiche del Giappone
L’argomento e i simboli che ricordano in qualche modo la vicenda non piacciono a Tokyo che ha già più volte chiesto la rimozione delle altre statue del Paese, in virtù di un accordo del 2015 che avrebbe dovuto, una volta per tutte, porre la parola fine su quanto accaduto durante la guerra. Due anni fa, alla firma dell’accordo, il Giappone chiese ufficialmente scusa alla Corea del Sud e sovvenzionò con 9 milioni di dollari una fondazione che avrebbe dovuto occuparsi delle ‘donne di conforto’ ancora viventi. Nel 1965 la questione fu messa a tacere da un accordo di pace bilaterale, con il quale entrambi i Paesi accettarono di evitare l’argomento delle schiave di guerra durante gli incontri ai forum internazionali.
Nonostante gli accordi tra i due popoli, negli ultimi anni si sono moltiplicate le statue installante in Corea del Sud. In totale sono 38. Una in particolare, collocata all'esterno dell'Ambasciata nipponica a Seul nel 2011, provocò l'ira giapponese. La statua fu messa per commemorare la millesima manifestazione a sostegno delle ‘donne di conforto’. Nel 2016 un’altra fu posta di fronte al consolato giapponese di Busan e provocò una vera e propria crisi diplomatica tra i due Paesi. Il Giappone in quell’occasione ritirò l’ambasciatore e il console dalla Corea del Sud.