All'indomani delle elezioni, Israele si è risvegliata in una situazione di incertezza molto simile a quella vissuta meno di sei mesi fa, dopo il voto del 9 aprile. In un quadro politico che resta bloccato, si moltiplicano gli appelli per un governo di unità nazionale ma prende anche piede una guerra dei veti incrociati. Il Likud del premier Benjamin Netanyahu, insieme agli alleati di destra e ultraortodossi, non sembra avere i numeri per formare una maggioranza, fermandosi a 55 seggi rispetto ai 61 necessari.
Il partito Blu e Bianco di Benny Gantz si è posizionato lievemente avanti al rivale (32 a 31 seggi) ma neanche lui gode del sostegno di cui ha bisogno. L'ago della bilancia si conferma Avigdor Lieberman, leader del partito ultra-nazionalista russofono Yisrael Beiteinu, con i suoi 9 seggi, ma un peso nuovo potrebbero averlo anche gli arabi con la Lista Unita (13), mentre l'estrema destra di Otzma Yehudit si conferma fuori dalla Knesset.
Il presidente Reuven Rivlin, dopo l'ufficializzazione dei risultati, comincerà il giro di consultazioni per capire quale candidato abbia le migliori chance di formare un governo, ma i principali partiti hanno già creato squadre negoziali ad hoc per portare avanti i colloqui serrati.
Netanyahu, sul cui capo pende la spada di Damocle delle inchieste giudiziarie - agli inizi di ottobre è prevista la sua udienza difensiva prima dell'ufficializzazione da parte del procuratore generale Avichai Mandelblit delle incriminazioni per frode, abuso di fiducia e corruzione - lavora per mantenere compatto il blocco di destra. Rivolgendosi al Paese, è tornato ad agitare lo spettro minaccioso della 'quinta colonna' interna, ricordando che la scelta è tra lui o un "governo pericoloso che dipende dagli arabi", uno scenario inconcepibile "ora più che mai".
Il leader del Likud ha quindi annunciato che insieme a Shas, United Toraj Judaism (Utj), Unione Nazionale, Focolare ebraico e la Nuova Destra, si è deciso "all'unanimità di andare insieme ai negoziati" per arrivare a un governo da lui guidato. In attesa dei risultati ufficiali, Gantz si è limitato ad augurare allo "Stato d'Israele un forte governo di unità", ma senza Netanyahu, come aveva già precisato martedì sera un portavoce del numero 2 del partito, Yair Lapid.
Proprio questo è uno dei nodi principali, come è tornato a sottolineare il ministro del Turismo Yariv Levin secondo il quale la porta dei negoziati è aperta per Gantz, a patto però che rinunci alla sua richiesta di avere un Likud 'depurato' di Netanyahu. E sulla carta del governo di unità nazionale ha continuato a insistere tutto il giorno Lieberman che parallelamente ha assicurato che non andrà al governo con i partiti arabi, "neanche in un universo parallelo".
L'unica opzione valida per lui è una coalizione Likud-Blu e Bianco-Yisrael Beiteinu, inutile "perdere tempo" pensando ad altre soluzioni. Immediata la risposta dell'Utj, voce degli ultraortodossi ashkenaziti: di fronte a questo aut aut, il leader Yaakov Litzman ha fatto sapere che siederà nello stesso esecutivo con Lieberman se quest'ultimo, strenuo sostenitore di posizioni laiche, inizierà a indossare i filatteri e a osservare lo shabbat.
La minoranza araba stavolta si è recata in massa alle urne: affluenza al 60% contro il 49% della scorsa tornata elettorale, un risultato per il quale il deputato Ahmad Tibi ha ringraziato ironicamente lo stesso Netanyahu che con i suoi allarmismi ha spinto l'elettorato arabo al voto. Il leader di Lista Unita, Ayman Odeh, ha ribadito di volere la caduta del leader del Likud ma "niente è scontato"; si è sentito con Gantz e ha ventilato la possibilità di "raccomandarlo al presidente Rivlin" per formare il governo, sottolineando però di avere "condizioni chiare". "Sulla base di queste decideremo", ha aggiunto.