L’offensiva turca al confine con la Siria, in concomitanza con il ritiro delle truppe statunitensi, sostituite ora da quelle russe, dimostra la rapida evoluzione degli assetti geopolitici e degli equilibri strategici in Medio Oriente. Dalla Siria allo Yemen passando per la crisi delle petroliere nel Golfo, e per gli attacchi agli impianti Sauditi di produzione petrolifera, l’area è in continua ebollizione ed emergono nuovi attori con ambizioni egemoniche.
Per gli osservatori è difficile capire tutti i legami e le relazioni che tengono insieme il quadro. Per questo i ricercatori della Fondazione Eni Enrico Mattei hanno deciso di avviare un progetto di ricerca per ricostruire, per quanto possibile, le linee e gli assi su cui si muove la geopolitica dei Paesi del Golfo con un occhio più attento agli aspetti direttamente connessi alle questioni energetiche.
“Il progetto analizza il contesto politico della regione del Golfo, oggi fortemente frammentato a causa delle due fratture principali (Arabia Saudita insieme agli Emirati Arabi Uniti contro il Qatar, da un lato, e contro l’Iran, dall’altro) e da un lento ritiro degli Usa, che ha acuito le paure nazionali riguardo la sicurezza”, spiega il responsabile del progetto Pier Paolo Raimondi.
I delicati equilibri del Golfo
A rendere particolare il lavoro di ricerca è l’approfondimento che verrà dedicato al tema delle risorse energetiche, che pure giocano un ruolo di primo piano piano nella capacità di creazione e redistribuzione di reddito all’interno dei diversi Paesi. “Avendo chiaro il contesto politico in cui operano i diversi Stati – dice ancora Raimondi – saranno quindi analizzati i principali trend di produzione ed export dei Paesi del Golfo, tenendo anche in considerazione le diverse risorse energetiche prodotte che per Arabia Saudita, Emirati Arabi e Iran sono maggiormente legate al petrolio, mentre per il Qatar e in parte anche per l’Iran sono maggiormente legate al gas”.
La ricchezza di questi paesi dipende completamente dalle risorse energetiche e le ripercussioni geopolitiche possono stravolgere i già delicati equilibri sociali di ciascuno stato. Vista la posta in palio (nella regione passa almeno il 33.5% della produzione mondiale di petrolio e il 18% di quella di gas) sono in tanti i Paesi che guardano con interesse all’area.
“Il progetto andrà quindi a delineare i principali driver della geopolitica e geoeconomia energetica all’interno della regione da parte di attori esterni, come per esempio USA, Gran Bretagna, Francia, Turchia, Cina e Russia – continua Raimondi –. Naturalmente in questo progetto di ricerca terremo conto delle più recenti evoluzioni del quadro geopolitico del Golfo, inclusi gli attacchi alle facilities energetiche saudite da parte dell’Iran dello scorso mese di settembre”.
Gli scenari locali e globali
L’idea è quella di far vedere come il contesto politico del Golfo sta attraversando forti mutamenti sulla spinta di due differenti forze che stanno operando in chiave regionale e in chiave internazionale. “Il primo punto di rottura in chiave regionale è senza dubbio quello legato alla comparsa delle cosiddette primavere arabe che, soprattutto dopo la conquista del potere da parte della Fratellanza Musulmana in Egitto, ha accelerato la frattura tra il Qatar, uno dei principali sostenitori della Fratellanza Musulmana, e l’Arabia Saudita. E con lei gli Emirati Arabi Uniti, che invece vedono nella ascesa della Fratellanza Musulmana una potenziale minaccia che mina le basi del potere nei loro paesi e hanno paura che questo movimento possa suscitare proteste di massa sui propri territori”.
Sullo sfondo di questo nuovo conflitto, tutto interno all’Islam sunnita, c’è poi il conflitto inter-confessionale tra i Sunniti e Sciiti, che stavolta vede Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti contrapposti all’Iran. Non si tratta solo di uno scontro religioso, ma anche militare con un peso importante nei conflitti aperti in Siria e, ancora di più, nello Yemen. “Su questo fronte stiamo osservando un indebolimento da parte del fronte anti-iraniano che racchiude Emirati, Israele, Arabia Saudita e ora, con Donald Trump, anche gli Stati Uniti, perché da parte degli Emirati Arabi stanno arrivando segnali di apertura nei confronti dell’Iran”, aggiunge Raimondi di FEEM.
A spingere verso questa distensione gli emiri sarebbero le ricadute in termini di reputazione per il coinvolgimento in un conflitto molto cruento, come quello nello Yemen, da cui le milizie emiratine si stanno ritirando, e il rischio di trovarsi coinvolti in un conflitto che li vedrebbe esposti in prima fila sulla linea del fuoco.
Nuova diversificazione energetica
Questa situazione conflittuale e regionale è acuita dalla decisione, maturata durante la presidenza di Barack Obama, di progressivo ritiro degli impegni degli Stati Uniti sullo scacchiere mediorientale anche a seguito degli accordi di pace con l’Iran. “Proprio questi accordi – spiega Raimondi – sono stati considerati inaccettabili da parecchi paesi dell’area che, anche in virtù di un ridimensionamento dell’impegno strategico Usa, hanno visto crescere le minacce alla loro sicurezza nazionale”.
La risposta nella regione a questa politica è stata l’adozione di politiche più aggressive e anche una nuova corsa agli armamenti. Uno degli aspetti su cui si concentrerà l’attenzione dei ricercatori della Fondazione Eni Enrico Mattei è quello energetico per Raimondi: “Si tratta di nazioni che dipendono fortemente dalle entrate garantite dall’esportazione di petrolio e gas e quindi risentono molto delle oscillazioni del prezzo a livello internazionale di queste materie prime. Inoltre in tutti i Paesi dell’area è in atto un incremento consistente della domanda di energia interna e questo riduce ulteriormente i margini per l’export di idrocarburi e di conseguenza i profitti derivanti dalle esportazioni che invece servono a finanziare gli stati. Anche per questa ragione, molti stati puntano a ridurre i loro consumi interni di idrocarburi con politiche di diversificazione, come per esempio lo sfruttamento dell’energia solare”.
O anche dell’energia atomica visto l’annuncio recente dell’Arabia Saudita, che ha avuto il via libera (anche da parte degli Usa) di costruire altri due reattori nucleari dopo il primo sperimentale in fase di ultimazione nei pressi di Riad. “Queste politiche di diversificazione energetica sono nate anche per far fronte alle oscillazioni del prezzo degli idrocarburi da cui dipendono le entrate dei singoli stati. Basta pensare che nel 2011 il prezzo del petrolio era circa 100 dollari al barile mentre oggi si aggira intorno ai 60 dollari. Questo ha ripercussioni immediate nei bilanci statali dei singoli paesi dove una buona fetta della popolazione lavora nel pubblico. In Arabia Saudita, il 30% della forza lavoro lavora nel settore pubblico . Se il prezzo del petrolio scende troppo quest’ultimo avrà difficoltà a mantenere un certo livello di spesa. Alla base del contratto sociale dei paesi arabi lo Stato eroga servizi ai cittadini tramite sussidi a discapito della rappresentanza”, conclude Pier Paolo Raimondi.
Dalla diversificazione energetica potrebbero però nascere nuovi posti di lavoro che potrebbero dare spazio alle nuove generazioni: il 60% della popolazione in tutta l’area del Golfo è sotto i 25 anni: si prevede dunque che 20 milioni di persone si affacceranno sul mercato del lavoro entro il 2025.