La condivisione di intelligence e informazioni sensibili sui cittadini tra Stati è priva di regolamentazioni adeguate, e ciò può aprire la porta a possibili abusi dei diritti umani. Anche perché questo genere di attività si è evoluta con la crescita di nuove tecnologie di sorveglianza, che permettono ai governi di raccogliere, conservare e condividere vaste quantità di informazioni personali, inclusi dati raccolti attraverso tecniche di sorveglianza di massa. Inoltre gran parte degli accordi di “intelligence sharing” sono segreti e la maggioranza dei Paesi non hanno una regolamentazione interna adeguata. È quanto sostiene un rapporto appena pubblicato dalla ong britannica Privacy International, con la collaborazione di altre 40 ong partner, che hanno analizzato 42 diversi Paesi (inclusa l’Italia, dove sono state coinvolte le associazioni CILD - Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili, e il Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani Digitali).
Il progetto rientra in una campagna che punta a rendere più trasparenti le pratiche di condivisione di intelligence fra Stati e a incoraggiare un maggior controllo su queste attività dagli organi deputati alla vigilanza. Organi a cui erano state inviate delle domande di chiarimento da parte delle ong. Il risultato di questa analisi (intitolata “Secret Global Surveillance Networks: Intelligence Sharing Between Governments and the Need for Safeguards”) è preoccupante, scrive Privacy International. Le risposte sono arrivate solo da 21 organi di vigilanza. E l’Italia non è fra questi. Infatti il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, non ha mai risposto.
Ancora nessuna risposta dal Copasir
"A settembre abbiamo scritto al Copasir con Privacy International e Hermes Center”, commenta ad AGI Antonella Napolitano, direttore della comunicazione di CILD. “Ma non abbiamo ricevuto risposta dalla presidenza, anche se un suo membro ha pubblicamente lamentato la mancanza o il ritardo di informazioni su alcuni fronti. Notiamo invece che gli organi di vigilanza in altri Paesi hanno risposto alle domande di Privacy International e di altre organizzazioni”.
E le risposte raccolte nella analisi mostrano che:
- la maggior parte dei Paesi non hanno una legislazione nazionale che regoli le attività di condivisione dell’intelligence fra Stati
- per 9 dei 21 organi di vigilanza (che hanno risposto) non esiste una legge che obblighi le agenzie di intelligence a informarli su questo genere di accordi fra Stati; altri 9 dicono di avere invece accesso a tali informazioni
- nella maggior parte dei Paesi il processo per autorizzare la condivisione di intelligence aggira le autorità indipendenti e gli organi di vigilanza
Quali rischi per la privacy dei cittadini
Secondo Privacy International, senza adeguate salvaguardie, le attività di intelligence sharing fra Paesi possono diventare un modo per aggirare le proprie leggi e garanzie a difesa dei diritti e della privacy dei cittadini, dando la sorveglianza in outsourcing a Stati alleati. Per questo è necessario che ci siano chiari meccanismi di controllo. Che in questo momento latitano. Anche in Italia, come abbiamo visto.
Eppure il nostro Paese fa intelligence sharing con altri. Lo sappiamo dai documenti di Edward Snowden, in cui l’Italia viene inserita in un gruppo detto dei 14 Eyes (sul modello della coalizione più stretta dei 5 Eyes, che include Stati Uniti, UK, Canada, Australia, Nuova Zelanda). Ulteriori dettagli su questo gruppo sono emersi a marzo, quando la testata The Intercept ha pubblicato nuovi documenti dell’archivio Snowden. L’Italia infatti farebbe parte di un gruppo di 17 Paesi denominato SIGINT Seniors (SIGINT sta per Signal Intelligence, indica l’attività di raccolta di comunicazioni elettroniche) che collabora e si incontra regolarmente su questioni di sicurezza. Ha due divisioni: SIGINT Seniors Pacific e SIGINT Seniors Europe, entrambe guidate dall’americana Nsa, l’agenzia per la sicurezza nazionale. SIGINT Seniors Europe risale al 1982, ed è poi cresciuto a 14 Paesi, tra cui l’Italia e i Five Eyes; a volte viene indicato come i 14 Eyes. Tale alleanza - mostrano i documenti - ha collaborato al monitoraggio delle comunicazioni in relazione ai principali eventi europei, inclusi i Giochi Olimpici invernali del 2006 svoltisi in Italia, a Torino. Proprio in questo periodo le agenzie dei vari Paesi iniziano a lavorare “sull’utilizzo (exploitation) di internet”, un “enorme passo in avanti” per il gruppo, secondo i documenti, perché molti membri erano stati fino allora “riluttanti a riconoscere l’esistenza della Rete”.
“Sappiamo che esiste questa coalizione ma poco altro. Inoltre da noi non ci sono report o controlli strutturati come in altri Paesi, tanto più che il nostro Copasir non sopravvive alle singole legislature”, commenta ad AGI Fabio Pietrosanti, portavoce del Centro Hermes. “Sarebbe utile che sul tema fossero coinvolti anche il Garante della privacy, da un lato; e l’ANAC, l’autorità nazionale anticorruzione, dall’altro, dato che gli appalti riservati non dovrebbero essere esenti dal controllo anticorruzione”.
"Oggi l’Italia vede un coinvolgimento di primo piano in Libia – commenta ancora Napolitano (CILD) - fa accordi per rimpatriare richiedenti asilo e impedire l’arrivo di altre persone, in uno scenario di grande opacità: che informazioni ha il Parlamento? in questo quadro è fondamentale sapere come funziona la collaborazione tra agenzie di intelligence, e se e come gli organi di vigilanza hanno possibilità di esaminare tali attività”.