In collaborazione con l'Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese
Roma, 13 mag. - Per gentile concessione dell'editore Anteo Edizioni, pubblichiamo un estratto de “Dietro il sorriso, il lato nascosto di Dalai Lama” di Maxime Vivas a cura nell'edizione italiana di Filippo Bovo.
(...) Sapevo comunque che il Tibet degli Anni Cinquanta, allorchè il Dalai Lama si diede all’esilio, aveva una popolazione di poco superiore ad un milione di abitanti. Oggi invece la popolazione è di sei milioni di tibetani, sparsi fra il Tibet ed il resto della Cina. Quindi la teoria del “genocidio” o addirittura della “pulizia etnica” da parte dei cinesi a danno dei tibetani proprio non regge. I tibetani sono aumentati, grossomodo, di un milione ogni decennio. Anche la teoria del “genocidio culturale” m’appariva poco credibile. Sapevo infatti che in Cina si tenevano mostre e festival dedicati alla cultura tibetana e che i sontuosi monasteri del Tibet erano stati restaurati a spese del governo cinese. Questi fatti cozzavano con qualsiasi teoria di “genocidio culturale” a danno della nazione. Certo, il governo cinese in Tibet aveva anche aperto delle scuole e delle università: questo poteva essere, insieme all’uso della televisione nazionale, uno strumento d’omologazione della cultura tibetana a quella cinese. In parole povere, poteva essere un mezzo con cui diffondere la cultura cinese in Tibet, permettendole di soffocare quella locale. Ma anche in questo caso, in assenza di dati concreti, si trattava di una tesi tutta da provare e da verificare. Se aprire delle scuole o trasmettere in tutto il paese trasmissioni della stessa lingua è “genocidio” o “colonizzazione” culturale, allora anche in Italia, fin dall’Unità ed ancor più a partire dal Secondo Dopoguerra con la nascita della televisione, è stata praticata la stessa cosa. E’ stato in quel modo, infatti, che nell’Italia d’allora s’è riuscito a sconfiggere l’analfabetismo e a fare dell’italiano una lingua realmente parlata da tutti, affiancandola ai dialetti.Personalmente non giudico l’apertura di una scuola o la diffusione di un programma televisivo o di un giornale su scala nazionale come un abominio. Se per i “pro-Tibet” lo è, allora vuol dire che ci troviamo di fronte all’esaltazione del “piccolo mondo antico”, quando le scuole non c’erano e il Dalai Lama regnava su una popolazione con tassi d’analfabetismo superiori al 90%. Quando, poi, leggendo l’opera di Vivas, ho scoperto che comunque nella tanto bistrattata Regione Autonoma del Tibet, sotto l’occhio di Pechino, ci sono anche radio e televisioni locali che trasmettono in lingua tibetana, e che nelle scuole primarie e secondarie s’insegna la lingua locale, mi sono reso del tutto conto che la propaganda “pro-Tibet” che tanto va per la maggiore in Occidente è quanto di più disinformato e delirante vi possa essere. Se i tibetani, anzichè diminuire, sono aumentati, e se la loro cultura trova spazio, oltre che sui media, anche nel sistema educativo pubblico, decisamente le teorie circa il genocidio etnico e culturale della nazione tibetana si rivelano infondate. Ed infatti, ormai, solo i “pro-Tibet” più esaltati continuano a sostenerle, mentre i più scaltri ed accorti si sono fatti, a tal proposito, ben più prudenti e realisti. Anche la questione dell’indipendenza tibetana s’è ormai evoluta in base ai tempi. Dalla richiesta di un’indipendenza dalla Cina “senza se e senza ma”, s’è passati alla contestazione della natura dell’autonomia concessa al Tibet da Pechino. Sostanzialmente, i “pro-Tibet” e lo stesso Dalai Lama ormai vogliono un Tibet che continui a rimanere all’interno della Repubblica Popolare Cinese, come sua parte integrante, ma più autonomo. Si potrebbe dire che abbiano abbassato le loro pretese: dalla rivendicazione e dal sogno di un Tibet indipendente da Pechino sono passati alle sottilizzazioni e ai bizantinismi sulla natura dell’autonomia di cui Lhasa gode all’interno della famiglia cinese. Certo, non mancano anche i sostenitori dell’indipendenza tout court, soprattutto nel mondo dell’associazionismo: ma, come abbiamo appena detto, è lo stesso Dalai Lama a sconfessarli, riconoscendo ormai il Tibet come parte della Cina. In ogni caso, questo libro e del pari anche questa introduzione non vogliono essere uno schiaffo dato ai sostenitori del Dalai Lama e del Tibet indipendente, e nemmeno un elogio alla Cina e alla Regione Autonoma del Tibet a cui essa ha dato vita a partire dal 1959. Non è, insomma, nè un testo di propaganda nè di contro-propaganda. Si tratta invece di una ricerca storica molto ben fatta, scritta con uno stile semplice ed asciutto che testimonia la sincerità e l’assenza di retorica del suo autore. Retorica che, invece e purtroppo, spesso abbonda negli scritti e nelle orazioni di molti attivisti e grandi personaggi impegnati nella questione del Tibet e dei diritti umani. Può sembrare che io dica una banalità, ma quando la retorica abbonda è la sincerità la prima a soffrirne (...).
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