di Claudia Astarita
dalle colonne del suo blog CINA 3.0
Roma, 27 giu. - Tanti lo avevano immaginato, ma pochi hanno creduto fino in fondo che potesse succedere davvero. E invece Xi Jinping ha dimostrato di essere un "vero" conservatore, degno successore dei Padri fondatori della Repubblica popolare cinese: Mao Zedong e Deng Xiaoping.
Come tutti i leader, Xi Jinping sogna di segnare per sempre la storia della Cina, e diversamente da chi lo ha preceduto negli ultimi trent'anni, ha davvero la possibilità per farlo. Questo perché il Paese sta attraversando una fase particolarmente critica a livello sia economico sia morale, da cui non potrà uscire senza l'aiuto di un Presidente sufficientemente forte da riuscire a prendere decisioni anche drastiche pur di ottenere un risultato.
Dal punto di vista della crescita qualcosa si sta muovendo. Il Partito pare essersi convinto che la strada giusta da seguire sia quella di sostenere i consumi interni, ma anche che questo risultato non potrà essere raggiunto rimanendo ad aspettare passivamente che succeda qualcosa. Ecco perché ha deciso di rilanciare l'urbanizzazione, trovando un modo per far partecipare la popolazione rurale allo sviluppo delle nuove aree urbane (in che significa garantire loro un lavoro, uno stipendio, e nuove capacità di spesa), evitando però che i nuovi investimenti destinati a immobili e infrastrutture siano gestiti in maniera "poco virtuosa", intervenendo su un mercato fino a ieri considerato off-limits, quello monetario. Senza che nessuno, o quasi, si lamentasse.
Le cose non vanno altrettanto bene sul piano morale, perché il "sogno cinese" di cui Xi Jinping parla da mesi, ormai, non piace. O forse semplicemente non è chiaro. Descrivendo un'immagine della Repubblica popolare e del suo popolo molto diverse rispetto a quelle cui quest'ultimo è sempre stato abituato, forse, sta creando confusione.
Dopo aver capito che la Cina non è ancora pronta a parlare di "rinascita", "rinnovamento" e "modernità", il neo-Presidente è subito corso ai ripari, rispolverando slogan e metafore tanto care al Grande e al Piccolo Timoniere. Xi Jinping ha ricominciato a parlare della necessità di "correggere gli errori di cui si sono macchiati i componenti del Partito", come se fosse di nuovo giunto il momento di "bombardare il quartier generale", il primo, e famosissimo, dazibao di Mao che nel 1966 aprì la fase più cruenta della Rivoluzione Culturale.
Xi Jinping ha chiuso la porta ai formalismi, all'inutile burocrazia, all'edonismo e allo sfarzo, li ha definiti i "quattro elementi della decadenza", e pretende che tutti i membri del Pcc facciano altrettanto, sostituendoli con auto-purificazione, perfezione, rinnovamento e miglioramento di se stessi. Per riuscirci, pensate un po', il Presidente ha suggerito loro di "riavvicinarsi alle masse", al popolo, l'unica vera "ancora di salvezza" per il Partito.
A parte gli evidenti riferimenti alla retorica maoista, non vi viene in mente nessun altro leader che, non così tanto tempo fa, ha cercato di purificare una società infestata dai valori sbagliati del capitalismo e ha poi fatto (forse) una brutta fine? Mi riferisco a Bo Xilai, che grazie a un'indiscutibile carisma e a una spiccata capacità di intervenire rapidamente e in maniera efficace negli ambiti che la gente comune considera importanti, quindi crescita economica, sicurezza e corruzione, ma anche coesione sociale e divertimento, è rimasto vittima della più grave epurazione dai tempi della Rivoluzione Culturale (tanto per rimanere in tema). Xi Jinping non ha fatto nulla per impedirlo. Anzi, nella fase più calda dello scandalo si è mosso per cancellare qualsiasi dettaglio che potesse in qualche modo collegarlo al leader di Chongqing (che, ricordiamolo, sarebbe dovuto diventare il suo braccio destro nell'attuale Politburo).
Forse Bo Xilai oggi è libero, ma confinato in un luogo in cui nessuno potrà mai trovarlo, magari proprio grazie all'intercessione di Xi Jinping. Tuttavia, più passa il tempo più appaiono verosimili ipotesi che fino a qualche mese fa sembravano assurde e macchinose. Ovvero che Xi Jinping avrebbe approfittato al volo dello scandalo di Wang Lijun per mettere fuori gioco un collaboratore che pareva ambire a trasformarsi in un temibile rivale. Ereditandone però quella politica dal sapore maoista la cui validità era già stata testata a Chongqing. Con ottimi risultati.
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