HONG KONG. Dal nostro inviato
Hong Kong, un luogo votato alla velocità e da anni, forse suo malgrado, condannato all'innovazione, alla sperimentazione, al cambiamento. Una metropoli dove chi lavora ha solo 20 giorni di ferie all'anno e chi studia, quando chiudono le scuole, si iscrive a corsi estivi per imparare qualcosa che durante l'anno può essere sfuggito. Una metropoli dove tutto ciò che è impilabile, viene impilato (persino i tram, non solo gli autobus, hanno due piani). Tempo e spazio: due lussi che Hong Kong non può permettersi. Proprio nella metropoli asiatica, Max Mara ha deciso di aprire un negozio "lento". E spazioso: 450 metri quadrati e una facciata di 40 metri. Un negozio dove non si è bombardati da suoni o immagini e dove è discreta persino la presenza dei grandi schermi led, di cui i marchi del lusso, in Asia, fanno spesso un uso eccessivo, per ricoprire intere pareti, all'esterno e all'interno dei punti vendita. «Vogliamo dare delle suggestioni, creare un'atmosfera. Per vendere i nostri prodotti, certo, ma in un modo nuovo», spiega Luigi Maramotti. Il presidente del gruppo Max Mara – che nel 2011 ha sfiorato i 1.300 milioni di fatturato – ama Hong Kong e la conosce bene, perché l'ha studiata, come studia ogni cosa, e vissuta: sull'isola, con i suoi diversi marchi (ci sono anche Sportmax, Marella, Max&Co, Marina Rinaldi e Pennyblack), l'azienda ha 36 negozi (8 quelli a insegna Max Mara, il primo fu aperto nel 1988), mentre nella Greater China, dove il gruppo è presente dal 1993, entro il 2012 si arriverà a 350.
Siete sempre impegnati nel rinnovamento dei negozi, ma a Hong Kong forse è iniziata una piccola grande rivoluzione…
Il flagshipstore di St.George, che si trova proprio di fronte a uno dei mall del lusso di più recente costruzione, il Landmark, è sicuramente molto diverso dagli altri sette negozi e non è detto che il concept venga replicato altrove. Perché lo abbiamo studiato in ogni minimo dettaglio per questa città, i suoi abitanti, le nostre clienti locali e forse anche per questo particolare momento storico.
Può spiegarci queste specificità?
I materiali sono sempre più naturali, i colori sempre più neutri. Al piano terra metà dello spazio è una sorta di galleria: da una parte ci sono i cappotti della collezione Atelier, capi storici rivisitati, che di recente abbiamo presentato a New York, Parigi e Milano. Dall'altra, la linea One-Off, pezzi unici che hanno sfilato ma non sono stati messi in produzione. Uno spazio all'insegna dell'esclusività e della nostra tradizione, che il personale ha imparato a raccontare: nel negozio lavorano 15 persone pronte a soddisfare qualsiasi curiosità – e le clienti di Hong Kong ne hanno molte – sui materiali, lo stile, la storia del gruppo e persino sulle tecniche di cucitura. L'idea del racconto ha ispirato anche la sfilata organizzata per l'apertura del negozio, un "Fantastic Journey" all'interno del mondo Max Mara (spettacolare evento a cui hanno preso parte oltre mille persone, una sfilata-show con una fortissima componente digitale, ndr).
A Hong Kong in questi giorni si superano i 30 gradi. Che senso ha dedicare tanto spazio ai cappotti in estate?
È una delle novità di cui parlavo. I cappotti sono il nostro heritage e quindi ci rappresentano e ci raccontano meglio di ogni altro capo. Anche se in oltre 60 anni di lavoro abbiamo imparato a fare, bene, molte altre cose, sia nell'abbigliamento sia negli accessori. Quindi è giusto che i cappotti siano lì, in quell'ideale galleria dello stile Max Mara. Parlano da soli, alla cliente che sa ascoltare. E poi sono capi senza tempo, oggetti di design, più che di moda. E se proprio vogliamo vedere la cosa da un punto di vista commerciale, forse non ne venderemo tanti come in inverno, ma l'idea di capi stagionali mi sembra sorpassata, viste le bizze del tempo e il fatto che la gente, viaggiando, attraversa continuamente continenti e stagioni.
Quanto è importante la Cina per il gruppo Max Mara?
Assorbe circa il 25% del fatturato, è ormai il primo mercato, insieme all'Europa nel suo complesso, ed è quello che cresce più rapidamente, del 30% all'anno. Poi c'è la Russia e siamo molto contenti di India e Brasile. Ma in nessun altro Paese c'è l'entusiasmo per i consumi di moda, a volte persino ingenuo, che vedo in Cina. I giovani, in particolare, si avvicinano alla moda con una gioia e uno spirito quasi di gioco, che in Occidente non esiste più da tempo.
Cosa prevede per il 2012?
Dopo un 2011 più che soddisfacente, con un fatturato di 1.267 milioni e una percentuale di export che ha sfiorato il 60%, non mi sento di fare previsioni e non mi fido di chi le fa. L'anno scorso, più o meno di questi tempi, in molti dicevano che il 2012 sarebbe stato un anno di svolta, perché il peggio era passato. Non aggiungo altro. Come imprenditore, posso solo continuare a investire con tutta la coerenza e la visione di cui sono capace, cercando di coinvolgere tutti quelli che lavorano con me. Anche perché è durante le crisi che le persone e le aziende, se stimolate adeguatamente, possono tirare fuori il meglio di sé.
Cosa consiglia alle Pmi del tessile-abbigliamento messe a dura prova dalla crisi?
Non nego le enormi difficoltà di questo momento, ma non ho ricette variabili a seconda della dimensione aziendale. Servirebbe piuttosto – noi imprenditori lo chiediamo da fin troppo tempo – un contesto diverso e la cosa più urgente, in Italia, è la certezza del diritto. In un Paese dove le regole e le leggi cambiano di continuo le aziende arrivano all'esasperazione e gli investitori stranieri scappano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
26/07/2012