Le conseguenze dell'attuale capitalismo finanziario sulla vita di miliardi di persone hanno fatto esplodere una nuova tensione tra la dimensione locale e quella globale del mondo. Ne sono segno tanto i recenti eventi che hanno scosso l'Europa con il prepotente riemergere del voto di protesta contro le politiche tecnocratiche di austerità (nelle elezioni in Francia, Grecia e Westfalia), quanto episodi apparentemente distanti quali il contenzioso fra India e Usa sull'outsourcing nell'It o il malcontento dei Paesi africani verso i cosiddetti accordi di partnership economica con la Ue.
Finora il mondo è riuscito a navigare nei marosi della crisi evitando una guerra protezionistica come avvenne negli anni Trenta, ma i segnali di un risorgente mercantilismo non mancano. Anzi, secondo alcuni commentatori, nonostante la generale retorica sul libero mercato comportamenti protezionistici sono diffusi fra gli stessi membri della Wto, e in questo senso gli Usa, Paese promotore dell'Organizzazione, non differiscono dagli altri.
Non si tratta certo di una novità. Secondo Charles P. Kindleberger, il contagio finanziario della Grande crisi del 1929 avrebbe potuto essere bloccato o perlomeno contenuto se gli Stati Uniti avessero esercitato il ruolo di leadership che la loro potenza economica gli conferiva. Invece furono i primi ad adottare misure protezionistiche con la deprecata tariffa Hawley-Smoot del 1930 che innescò una reazione a catena fra gli Stati pronti a erigere barriere all'importazione con conseguenze tragiche sulla storia del mondo. Il fatto è che oggi gli Usa, indeboliti, vengono meno ancora una volta al loro ruolo di leadership.
D'altra parte, il mondo ha assistito già una volta al collasso della globalizzazione nell'era del gold standard che si concluse nel 1914, e solo recentemente il livello degli scambi mondiali era tornato ai livelli precedenti il primo conflitto mondiale. Il commercio mondiale, crollato poi nel 2009 sulla scia della crisi finanziaria, ha recuperato e superato i livelli pre-crisi nei primi mesi del 2012. Ma non si è trattato di un processo lineare che ha coinvolto allo stesso modo tutti i Paesi. Le economie sviluppate, e in particolare l'Europa, sono rimaste ai livelli del 2006; invece in Asia, Europa dell'Est, Medio Oriente e Africa le importazioni sono da due a tre volte più elevate che nel 2009, e ciò grazie all'aumento della domanda interna.
Il fatto è che l'architettura economica finanziaria e politica mondiale ereditata dal passato, compresi l'Fmi e la Banca mondiale, è stata disegnata in larga misura con gli accordi di Bretton Woods nel 1944 quando gli Usa erano una potenza egemone e Africa e Asia erano ancora in parte sotto un qualche tipo di dominazione. Da allora il mondo si è trasformato rapidamente, tanto più dopo il crollo dell'Urss e l'affermazione del "socialismo di mercato" in Cina, e ha rimesso in discussione l'ordine e l'assetto istituzionale imposto dalle maggiori potenze nel dopoguerra.
La Wto, istituita nel 1995, avrebbe dovuto dettare le regole di una nuova fase di globalizzazione. I Paesi in via di sviluppo attendevano, infatti, che la Wto eliminasse le barriere che ostacolavano l'incremento dell'export in particolare verso la Ue. Ma questo è avvenuto solo in piccola parte, come dimostra la recente conclusione sottotono del Doha Round e il rinvio di molte questioni alla prossima conferenza interministeriale.
Intanto la debolezza dell'Eurozona contribuisce a deprimere il volume mondiale degli scambi. Un campanello d'allarme in tal senso viene dai recenti dati sul rallentamento nella crescita del commercio estero cinese e dalla contrazione nell'export di Taiwan e della Corea del Sud. Mentre negli Stati Uniti la domanda appare in ripresa (le importazioni sono aumentate di oltre il 5% rispetto al gennaio 2011) e l'adesione della Russia alla Wto apre nuovi spiragli di ottimismo.
A fronte della crisi delle istituzioni sovranazionali, lo squilibrio fra ambito nazionale dei governi e natura globale dei mercati appare dunque il "ventre molle" della globalizzazione. Secondo Dani Rodrik, conferire autonomia e responsabilità alle democrazie nazionali costituisce per l'economia mondiale aperta non un ostacolo bensì un presupposto inderogabile. La crisi ha cambiato il mondo: l'impulso neoprotezionistico dei Paesi emergenti, l'estensione della protesta contro l'Europa tecnocratica e dell'austerità, il permanere di fame, povertà e sfruttamento del lavoro dei minori in ampie plaghe del globo sono altrettanti segnali di preoccupazione sul futuro tanto delle società occidentali quanto del pianeta. La sfida immediata è riprendere il processo di integrazione mondiale su nuove basi: rendere l'apertura dei mercati sostenibile e compatibile con obiettivi sociali e ambientali più ampi e con la tutela, nell'ambito di ciascun Paese, delle politiche di crescita più adatte al livello locale.
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02/06/2012