di Alessandra Spalletta
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AgiChina24 ha intervistato Nunziante Mastrolia, Ricercatore del Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS).
La Cina aumenterà nel 2012 le spese per la Difesa dell'11,2%, una percentuale minore rispetto al 12.7% del 2011. Molti analisti ritengono che la spesa ufficiale sia troppo bassa per essere verosimile, e che il budget non contempli tutte le voci relative al mantenimento dell'esercito. Qual è la tesi più accreditata?
Le opinioni sono discordanti; si passa da chi sostiene – come il Sipri – che le cifre ufficiali coprano poco più del 60% della spesa militare, a chi dice addirittura che siano tre volte superiori a quello che viene dichiarato. Questa non è una novità, è una vecchia questione su cui si dibatte da anni. Non sapremo mai quali sono le cifre reali: dal budget dichiarato, pare che siano escluse le spese per la ricerca scientifica e per il procurement, ossia l'acquisto di nuove armi. Ma non è questo il punto. Ricordiamoci che sono quindici anni che le spese militari cinesi crescono con aumenti a due cifre. Bisogna invece capire il contesto generale: perché la Cina si sta armando? Quali sono le preoccupazioni dei cinesi? Insomma, pare che più o meno la stessa cifra che si spende per la difesa, venga destinata alla sicurezza interna, senza dimenticare che storicamente l'esercito e le forze armate cinesi hanno avuto anche il ruolo di mantenere la stabilità interna. In un contesto regionale dove la presenza degli Stati Uniti nellaregione dell'Asia Pacifico sembra stia tornando con maggiore enfasirispetto al passato, se da un lato è vero che la spesa militare può avere un impatto verso l'esterno, dall'altro lato serve anche a mantenere saldo il regime.
L'incremento del budget è una risposta parziale alla campagna strategica di Washington?
Non è una risposta immediata alle ultime mosse di Washington nell'Oceano Pacifico, ma è riconducibile a un trend in atto da anni. Il ritorno degli Stati Uniti nel Pacifico non inizia con Obama, ma con Bush. E la linea di evoluzione strategica cinese è pianificata da anni. Linea, questa, che ha lo scopo di arginare l'intervento degli Stati Uniti nella regione, e quindi promuovere lo sviluppo di sistemi d'arma che possano proiettare la potenza cinese all'esterno. La portaerei, i nuovi caccia stealth, i missili antinave: la Cina continuerà a investire lungo questa traiettoria.
Certo che Pechino non può non sentirsi accerchiata…
In realtà la situazione diventerebbe più pericolosa senza gli Stati Uniti. La mia analisi è che la presenza americana nella regione serve a calmare gli animi dei paesi rivieraschi. Serve – in altre parole - a produrre sicurezza. Lo scrive Kissinger nel suo ultimo libro: quelle che da noi occidentali sono viste come azioni che servono a calmare le acque, possono essere giudicate da Pechino come tentativi di accerchiamento. Storicamente la reazione cinese è stata quella di lanciare una stoccata - un colpo psicologico per dire "non sono disposto a farmi accerchiare" -. A questo si aggiunge che la Cina sta entrando in una fase delicatissima; il XVIII Congresso del Pcc, che segnerà il passaggio di potere dalla IV alla V generazione, resta un punto interrogativo enorme.
Verso il prossimo Congresso del Pcc: rottura o cambiamento?
Oggi la politica cinese è attraversa da un dinamismo che spinge gli analisti a seguire con attenzione l'evoluzione dei singoli leader politici. Compito assai arduo, visto che non siamo in grado di conoscere fino in fondo i personaggi che animano il dibattito politico interno. A mio avviso lo scontro in atto è quello che si svolge tra le due anime del Partito: tradizionalisti e riformisti. C'è chi guarda al passato della Cina maoista o imperiale come stella polare per poter crescere nel XXI secolo, e c'è chi invece guarda all'Occidente come fonte per attuare le riforme e cambiare la struttura sia politica che economica del paese. Questa è la grossa frattura.
Quindi un Partito spaccato tra falchi e colombe? C'è che rigetta questa teoria...
Io la sostengo. Due esempi. Primo: il mese scorso Hu Jintao ha lanciato un appello per bloccare l'infiltrazione della cultura occidentale. Questo è un classico della Cina imperiale. Secondo: qualche giorno fa, come sappiamo, la Banca mondiale insieme con il governo cinese ha pubblicato il rapporto "China 2030" in cui praticamente si dice che per poter continuare a crescere, il Paese deve lanciare urgenti riforme economiche e politiche. Nel dossier non si afferna esplicitamente che le riforme debbano essere "di tipo occidentale", ma il messaggio è quello. C'è proprio una frattura tra chi guarda al passato e chi invece guarda all'Occidente.
La politica cinese sembra essere però attraversata da un'ondata di dinamismo. Wang Yang, leader del PCC del Guangdong e protagonista delle negoziazioni con il popolo ribelle di Wukan - dato in ascesa e prossimo a fare parte del Comitato Centrale del Politburo del Partito -, è considerato un liberale, spezzando così - a parere di alcuni analisti - quella divisione così netta tra conservatori e riformisti. Anche se sembra che di recente Wang Yang stia adottando il "modello Chongqing"…
Abbiamo affibbiato l'etichetta di liberale a Wang Yang dopo le elezioni a Wukan. Ma è un'interpretazione non condivisa e che solleva critiche anche a livello internazionale. E se fosse solo una mossa tattica? Non dimentichiamo che Jiang Zemin fece lo stesso a Shanghai nell'89: calmò gli animi e gestì la situazione senza scontri. E poi, salì al vertice.
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