di Alessandra Spalletta
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Roma, 28 feb. - Era stato anticipato in esclusiva dal Wall Street Journal giovedì scorso. L'atteso rapporto "China 2030" , realizzato dalla Banca Mondiale e da un importante think tank cinese legato al Consiglio di Stato, è stato presentato lunedì a Pechino dal presidente della World Bank Robert Zoellick. Il dossier, che sembra contare sul sostegno di un'ampia maggioranza in seno al Pcc, forse realizzato per influenzare la prossima leadership del Partito che salirà al potere nell'ottobre di quest'anno, suggerisce le "direzioni strategiche" verso cui la Cina deve muoversi in fretta se non vuole sprofondare nelle sabbie mobili di una crisi irreversibile. "L'economia cinese è a un punto di svolta, se Pechino vuole evitare la crisi deve lanciare riforme economiche con la massima urgenza", titola l'articolo di Antonio Talia apparso lunedì su AgiChina24.
AgiChina24 ha intervistato Geminello Alvi, scrittore, economista, la sua ultima opera è "Il Capitalismo. Verso l'ideale cinese", edito da Marsilio.
"L'attuale modello di crescita cinese è insostenibile", lo ha dichiarato Robert Zoellick durante la presentazione del dossier "China 2030" a Pechino. Il "Modello Cina" è giunto al capolinea?
Quello cinese non è un semplice capitalismo di stato come ce ne sono altri, si guardi ad esempio ai paesi del Brics, ma si distingue per aver mantenuto i caratteri fondamentali di un sistema comunista. In tal senso il rapporto della Banca Mondiale mi sembra piuttosto paradossale, perché la crescita in Cina si deve proprio ai conglomerati statali, alle banche statizzate, a una distribuzione del denaro secondo criteri marxisti di capitale e del tutto indifferente ai dati di mercato e alla discriminazione dei tassi di interesse. L'industria è ancora in gran parte proprietà dello stato, i progressi verso il mercato sono stati compiuti più nel periodo di Deng Xiaoping che negli anni recenti. Dal 2000 ad oggi abbiamo assistito a una regressione verso il controllo dello stato: gli elementi di un'economia mercantilista prevalgono su quella liberista. Questi, e altri, sono le ragioni del successo cinese. Un prototipo che è stato spesso oggetto di ammirazione e che secondo alcuni ha lanciato una sfida alla quale dovremmo adeguarci. Affermare oggi che l'origine del successo cinese abbia vita breve, equivale ad ammettere che tutto quello che è successo in Cina è stata una grande menzogna. Un modello che si è basato su un sistema finanziario fittizio, su un'amministrazione dispotica dei fattori "produttivi" del lavoro e del capitale; la 'meraviglia cinese', a torto o a ragione, si deve a una serie di paradossi: basti pensare all'enorme riserva di manodopera agricola a produttività marginale zero che viene trasferita nelle città a costruire grattacieli, azzerando così la produttività del settore agricolo e aumentando quella del settore industriale delle costruzioni.
Insomma il capitalismo di stato sul quale la Cina ha basato i suoi successi, contiene in nuce una bolla destinata a scoppiare?
C'è un aspetto curioso. Il fatto che alcune economie emergenti, come il Brasile, dipendano dall'economia cinese – si pensi all'importazione di materie prime dalla Cina -, è abbastanza singolare, e ci fa capire quanto si stia parlando non solo della Cina in sé, ma di un modello che da più parti viene vantato in crescita. Una crescita, però, data per scontata, a cui si attribuisce erroneamente una prospettiva decennale. Non possiamo dimenticare la crisi delle Tigri Asiatiche alla fine degli anni novanta, una crisi che spiega in piccolo quello che in grande accade oggi in Cina. Non s'intravedono differenze di qualità tra il boom delle nazioni asiatiche venti anni fa e l'imponente crescita del Dragone, ma è la scala che rende imponente il successo cinese. Non solo, la diversità è anche nei processi: le tigri asiatiche sono implose. Come andrà a finire in Cina? Molto dipende dalla tenuta del sistema politico cinese, dalle sue capacità dispotiche. Ci muoviamo su un terreno che riguarda non solo l'economia ma anche la politica. Per essere più precisi, la moralità della politica.
Il rapporto "China 2030" è stato a quanto pare avallato da ampi settori del governo cinese. Quale potrebbero essere allora gli effetti politici di un dossier che appare come un'azione 'concertata' tra Banca Mondiale e Pechino?
Una considerazione banale. A dieci anni dal Trattato di Lisbona, quante cose sono cambiate? E allora pensiamo a quanto sia inoffensivo un rapporto che sposta la soglia del mutamento di trent'anni. Si tratta, appunto, di una soglia ideale per un regime abituato a un dispotismo millenario, come quello che tiene da sempre unita la Cina tra crisi e mutamenti di dinastie. Se per noi venti o trenta anni costituiscono un limite piuttosto ridicolo per azzardare delle previsioni, sono però una soglia accettabile, e condivisibile, per qualunque dispotismo. Non c'è dubbio che da parte della leadership cinese vi sia la massima disponibilità ad assecondare le riforme, ma un' economia in cui diminuisce il peso del settore primario e aumenta il peso dei servizi, mal si accorda al dispotismo - si pensi solo al fiorire delle professioni!-. Siamo in una terra di nessuno, e diventa quindi abbastanza facile lanciare questo genere di allarmi, che si rivelano inoffensivi. Resta la certezza di un inevitabile punto di arrivo per il capitalismo di stato comunista cinese, che è un assurdo come lo è il capitalismo di stampo americano o europeo. Quel capitalismo che ha scelto di reggersi su sistemi finanziari nei quali si stampa moneta e poi con il debito pubblico si finanziano le banche, non è molto diverso da quello che i "poveri" comunisti cinesi hanno portato avanti per anni.
"E se il prossimo crack fosse in Cina?" si chiedeva giorni fa Aldo Giannuli sul suo blog. Giannuli ritiene verosimile la tesi di Roubini che prevede il crack subito dopo il Congresso del Pcc che si terrà il prossimo ottobre. La prossima crisi arriverà dall'Estremo Oriente?
E' difficile darsi all'arte delle profezie o delle previsioni. La situazione economica cinese si basa su una quantità enorme di spesa pubblica. Il 'grande gioco' è quello degli equilibri tra americani e cinesi: fin tanto che l'equilibrio regge, il paradossale stato dell'economia cinese può trovare dei punti di tolleranza, ed essere così amministrato. Se non è facile mettersi a fare previsioni, quel che è certo è che la situazione deflattiva in cui versa l'economia mondiale, in fondo aiuta sia la Cina sia l'America. Fino a quando non vi saranno potenti segnali inflattivi, reggere le bolle dell'economia cinese non sarà un gioco così arduo.
Sul fatto che la Cina debba cambiare modello, sembrano essere tutti d'accordo. Il punto è capire "come" e "quando": il dossier "China 2030" suggerisce "sei direzioni strategiche", ma probabilmente sarà l'orientamento politico della prossima leadership a incidere sul passo delle riforme. A suo avviso la Cina ha gli strumenti per proseguire nelle direzioni indicate anche senza cambiare politicamente?
Risposta secca: no. Vede, il mostro - il disastro - è stato creato in un certo senso forzando lo spirito dell'oriente nella direzione del materialismo economico. Nel fallimento del marxismo, e in questa crescita compressa e paradossale, è stato trovato un esito al capitalismo americano. Ma così è stata uccisa una tradizione millenaria, un modo d'essere. E' stata uccisa l'anima dell'oriente, che è poi l'unica misura di una vera riforma ecologica. Il ritorno a modi di vita diversi da quelli del paradossale consumismo comunista, il ritorno a modi di vita coerenti al Dao o a Buddha, mi sembrano al momento piuttosto problematici, tanto più alla luce dell'egemonia del periodo comunista che ha individuato nei movimenti spirituali, a ragione, il suo primo nemico. Non vedo incarnata nei propagandisti cinesi una svolta ecologica, che vedrei semmai inverarsi più come un ritorno alle antiche e potenti tradizioni dell'anima cinese. Ma qui entriamo in discorso piuttosto delicato, che riguarda il ruolo svolto dalle organizzazioni come la Banca Mondiale, che per vari motivi ha meno autorevolezza del Fondo Monetario Internazionale. Ecco, mi sembra che in fondo le previsioni della World Bank non siano molto più che giochi di parole..
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