Roma, 2 lug.- I cinesi sono ovunque, sono un gruppo chiuso, non vogliono imparare la nostra lingua né integrarsi in alcun modo, vengono in Italia, si arricchiscono e tornano a casa. Non solo, i cinesi mangiano - e ci fanno mangiare - di tutto, sono tutti uguali e, fatto ancora più strano, non muoiono mai. Questi sono solo alcuni dei pregiudizi legati agli immigrati cinesi la cui colpa - sempre se può essere considerata tale - è quella di essere circondati da un alone di mistero. Chi sono i cinesi in Italia? Quanti sono? Da dove provengono? Cosa fanno? Sono questi gli interrogativi che attanagliano gli italiani, in parte impauriti da questa comunità così lontana dalla propria, in parte incuriositi, ma in ogni caso decisi a voler inquadrare questi stranieri che arrivano dalla lontana terra orientale. Se dimentichiamo i pregiudizi appena elencati e proviamo a conoscerli - più che a inquadrarli - ci accorgiamo che i cinesi non sono poi così indecifrabili e che quel velo di mistero può essere facilmente squarciato. Se solo provassimo ad avvicinare i cinesi in Italia, ci accorgeremmo che la maggior parte di loro proviene sì dalla stessa zona e nella maggior parte dei casi apre la stessa attività, ma è ciò che accade dopo l'arrivo in Italia che li distingue e che li rende non un gruppo, bensì un insieme di persone. Proviamo allora a capire chi sono i cinesi che vivono in Italia.
Dei circa 187mila registrati (secondo una stima del 2008) nove su dieci provengono dallo Zhejiang. "I cinesi che prendono la strada delle migrazioni internazionali, che escono dalla Cina, sono quelli che provengono dalle zone che si sono arricchite prima e da quelle che hanno avuto un maggior contatto con l'esterno" spiega Antonella Ceccagno, docente di lingua e letteratura cinese presso l'Università di Bologna. "In genere si tende a pensare che le migrazioni partano dalle zone più depresse, quando in realtà, almeno per quanto riguarda la Cina, partono dalle aree più dinamiche, più collegate, dove è più facile trovare i soldi e le soluzioni per emigrare". E' questo quello che differenzia maggiormente gli immigrati cinesi da tutti gli altri. Essi non giungono nel nostro Paese per fuggire da una situazione di miseria estrema, ma per migliorare la propria condizione economica aprendo un'attività all'estero, attività – sia essa un ristorante, un laboratorio, o un'impresa di import/export - che di solito viene gestita dall'intera famiglia. "La comunità cinese è costituita da persone che hanno già una situazione di relativo agio alle spalle" spiega Valentina Pedone, docente di letteratura cinese presso l'Università di Urbino "Carlo Bo" e autrice del libro "Il vicino cinese". "Il loro viaggio è un progetto imprenditoriale sostenuto dalle risorse economiche della rete parentale (sia in patria che nel Paese d'approdo). Quello delle relazioni, o delle guanxi se vogliamo usare l'espressione cinese, è un network estremamente vitale per la sopravvivenza del singolo in un Paese straniero. "Le relazioni che uniscono ogni singolo cinese a una rete di familiari, parenti, amici e conoscenti è a prova di fallimento perché si basa su mutui e prestiti accordati da conoscenti, che non ci pensano neppure a non restituirli. Pena l'ostracismo perpetuo da ogni attività economica" spiegano Raffaele Oriani e Riccardo Staglianò in "I cinesi non muoiono mai". Il più delle volte i migranti cinesi hanno già contratto un debito già solo per il fatto di essere arrivati in un nuovo Paese e per aver acconsentito a un immaginario vincolo firma-euro-contratto: un ingresso su chiamata diretta può costare tra i 18 e i 20mila euro che l'immigrato può ripagare soltanto lavorando sodo - e gratis - per almeno due, tre anni. Se a fare da intermediario è un parente, gli anni di lavoro gratis possono diminuire. Così come spariscono se il cinese è pronto a saldare il debito, magari grazie ai prestiti ottenuti dalla sua rete di conoscenze. Scontato il debito, i cinesi iniziano a pensare a un'attività propria. "Ci vuole fatica, ma il sacrificio non basta. Senza le relazioni non sarebbe possibile restare" scrivono Staglianò e Oriani. "Che ci fai con un dito?" ha spiegato un giocatore cinese al Casinò di Venezia ai due giornalisti. "Non riesci nemmeno a prendere una fiche. Ma basta una mano per fare quello che vuoi". La mano è la fitta rete di guanxi.
Nonostante gli appoggi e le conoscenze, ricominciare in un Paese straniero è estremamente faticoso e le difficoltà crescono all'aumentare dei membri della famiglia. "Sono tante le coppie che lasciano i bambini in Cina dai nonni e li fanno vivere di rimesse" spiega Sergio Basso, regista del film documentario "Giallo a Milano", che con la sua telecamera si è addentrato nelle strade della Chinatown milanese per offrire uno spaccato della realtà cinese. "A fronte dello strazio della separazione tra genitori e figli c'è la prospettiva di una vita migliore in Cina. La separazione genera però problemi diversi al momento del ricongiungimento quando il ragazzo, ormai abituato a condurre un certo tenore di vita e a vivere nella bambagia coccolato da i nonni, si scontra con le regole imposte dai genitori" continua Basso. "Paradossalmente c'è un culture clash in arrivo che dipende più che altro dall'età in cui avviene il ricongiungimento: se il bambino che arriva in Italia è sotto i 12 anni si integrerà senza problemi. La glottodidattica ci insegna tra l'altro che farà in tempo ad acquisire l'italiano come seconda lingua in maniera abbastanza fluente. Se ha più di 12 avrà più difficoltà a impossessarsi della lingua - a meno che non sia particolarmente portato per le lingue -, si porterà dietro alcune difficoltà e questo limite linguistico ostacolerà quella che è la perfetta integrazione. La lingua sancisce quindi le premesse di un successo sociale" A ciò si aggiunge una società molto diversa dalla sua, un contesto estraneo e in cui non si riconosce. "Nel momento in cui arriva in Italia, un ragazzo di quindici anni non può che sentirsi spaesato. Inoltre, le cittadine della Cina di oggi sono delle metropoli e non hanno nulla da invidiare alle nostre città. Non si tratta più di un'occasione di miglioramento, di maggior cosmopolitismo. Non rappresenta più necessariamente un vantaggio e spesso questi ragazzi scaricano le proprie frustrazioni facendo gruppo o entrando in qualche gang" continua Basso. Una criminalità che, a rigor di cronaca, coinvolge quasi esclusivamente i connazionali. E' ovvio che non tutti i giovani cinesi diventeranno dei criminali, anzi.
Molto spesso i figli degli immigrati, quelli che vengono definiti i cinesi di seconda generazione, sono i più brillanti a scuola, sognano un futuro diverso e si impegnano per riuscire a costruirlo. Se le prime generazioni di immigrati scelgono di aprire quelle attività che vengono ormai inevitabilmente associate alle comunità cinesi, i figli, spesso più integrati, escono dal gruppo alla ricerca del proprio ruolo del mondo, rifiutando di contribuire all'impresa di famiglia. "Mi è capitato 2,3 anni fa di lavorare con la comunità cinese di Bari a un documentario e in un istituto tecnico i ragazzi cinesi mi dissero in perfetto italiano: "Non capiamo i nostri colleghi italiani che vengono per scaldare i banchi. Spendono più energie a capire come non fare i compiti e non assimilare le lezioni invece che impegnarsi per imparare. Non è più scuola dell'obbligo quindi potrebbero benissimo non venire" racconta Basso, che aggiunge: "E' un ragionamento disarmante perché loro avevano scelto ragioneria in modo da poter essere utili all'azienda di famiglia – ristorante o laboratorio di pelletteria - grazie al loro bilinguismo e alla loro preparazione commerciale". Ma sono molti i ragazzi che, dopo il lavoro nell'azienda di famiglia, decidono di continuare gli studi e di 'abbandonare la via tradizionale'. E'questo il caso ad esempio di Chun Li e sua sorella, il primo al terzo anno alla Bocconi di Milano e la seconda, appassionata di flauto traverso, che studia per entrare un giorno all'Accademia di Santa Cecilia; o di Lin Jie che studia al Politecnico di Milano e ha già le idee chiare: "conclusa l'università farà l'ingegnere a Milano".
E se non sono tutti come i fratelli Chun e come Lin Jie, forse la responsabilità non è del tutto la loro. "Le scuole sono l'unico luogo in cui le famiglie italiane e straniere entrano in stretto contatto. È a scuola che i giovani figli di immigrati conoscono la società che dovrebbe ospitarli. I tagli alla scuola e all'intercultura sono errori che pagheremo" afferma Valentina Pedone. Si legge in "I cinesi non muoiono mai" che nelle scuole italiane gli alunni cinesi circa 24.500, la quarta etnia dopo gli albanesi, i marocchini, e i romeni. "Il loro problema non è la matematica, ma la lingua" spiega la professoressa Mele dell'istituto comprensivo Daniele Manin di Roma, che aggiunge: "Sono la croce degli insegnanti di italiano e la delizia di quelli di matematica". Spesso i metodi d'insegnamento sono antiquati, troppo generici, troppo teorici. D'altro canto, come già accennato, la capacità di apprendimento dipende da diversi fattori, quali l'apertura alla cultura del Paese ospitante, o al contrario il grado di accoglienza che la società riserva agli immigrati, il livello d'integrazione e l'età dello studente. I sociologi dividono i giovani cinesi in quattro gruppi: generazione numero 2 per quelli nati in Italia; generazione 1,75 per chi è arrivato in età prescolare; generazione 1,50 per chi ha frequentato in Italia la scuola dell'obbligo: generazione 1,25 per quelli che sono giunti nel nostro Paese durante la seconda adolescenza. Va da sé che minore è l'età maggiore è il livello di integrazione.
E se l'apprendimento della lingua, e di conseguenza la fusione nella nuova società, è così difficile per un giovane, per un adulto l'impresa è ancora più ardua. "La tendenza a isolarsi della comunità cinese è solamente un mito. La realtà è che i cinesi preferiscono costituire aziende in cui tutto il personale è cinese e questo chiaramente rallenta l'apprendimento dell'italiano. Un fattore che contribuisce a isolare l'individuo" spiega la Pedone. "Anche il motore che spinge gli adulti a raggiungere il nostro Paese, l'emancipazione economica, fa sì che l'Italia non sia scelta come alternativa alla propria patria, un Paese dove ricominciare da capo, ma come una tappa in un percorso migratorio che auspicabilmente per la prima generazione prevede il rientro in Cina in età avanzata. In questo progetto, l'apprendimento dell'italiano, sicuramente un'impresa dispendiosa in termini di tempo e comunque non necessaria, viene affidata alla seconda generazione, che cresce e si scolarizza in Italia e che vive una condizione di completo bi-culturalismo" continua la sinologa. "Oltre a questi fattori imputabili alle modalità di insediamento degli adulti cinesi, c'è da riflettere sul fatto che in altri contesti migratori la popolazione non ha reagito alla stessa maniera e la lingua del Paese ospitante è riuscita a penetrare con maggiore facilità nelle famiglie. È il caso ad esempio di molte comunità in Nord e Sud America. Le politiche di accoglienza di un Paese possono fare molto nel garantire una convivenza serena di tutti i suoi cittadini. Senza dubbio la barriera linguistica che divide il gruppo cinese (adulto) e la società italiana è un muro con due facciate, cinesi e italiani ne sono ugualmente responsabili in maniera più o meno consapevole". La chiusura dei cinesi dipenderebbe quindi principalmente da una scarsa padronanza della lingua. A dimostrarlo c'è il fatto che le prime generazioni sono più 'chiuse' delle seconde. Della stessa opinione è anche Basso che difende così i cinesi da questo pregiudizio: "Io trovo che nelle prime generazioni sia assolutamente normale che si rimanga legati ai connazionali perché aiuta, perché scalda di più i cuori e per una ragione semplicissima che non si sottolinea mai abbastanza: noi abbiamo tutto il diritto di trascorrere il tempo nel modo che preferiamo di più".
In conclusione i cinesi sono ovunque, ma sono più presenti in alcune città dove la comunità, e dove di conseguenza le guanxi sono più radicate (Prato, Milano e Roma); non sono un gruppo chiuso né si rifiutano di imparare la nostra lingua, ma non è sempre facile farlo per i motivi analizzati; non vengono in Italia per arricchirsi e tornare poi a casa, anzi il gap generazionale tra genitori e figli è in costante aumento anche a causa del fatto che molti ragazzi cresciuti in Italia si sentono di fatto italiani e non hanno intenzione di tornare in Cina. Resta da sfatare solo un ultimo mito: i cinesi non muoiono mai. Staglianò e Oriani spiegano che in realtà i cinesi muoiono, ma non lo fanno in Italia per due motivi: il primo è che la comunità cinese in Italia è composta per lo più da giovani e adulti, e il secondo e che, una volta anziani, i cinesi preferiscono tornare in patria e ricevere lì assistenza e cure.
di Sonia Montrella
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