Roma, 28 mag. - Il mondo chiede alla Cina di essere un "responsible stakeholder" ma in pochi sono in grado di comprendere a fondo l'identità del Paese di mezzo. Un deficit di conoscenza che intacca la geometria delle relazioni del Dragone con alcuni Paesi, in primis l'Italia che sembra ancorata a posizioni di ancestrale scetticismo nei confronti di un ingranaggio che sta spostando l'epicentro del potere verso Oriente. Cos'è la Cina: "un immenso laboratorio per la globalizzazione; una società primaria repressiva, poi autoritaria, infine paternalista; una sconfitta definitiva del collettivismo, un nuovo ruolo per l'intervento dello Stato?".
Sono queste le domande da cui ha preso avvio il seminario internazionale organizzato dalla Fondazione Italianieuropei e Osservatorio Asia con Massimo D'Alema, Giuliano Amato, Romano Prodi e il nuovo Ambasciatore cinese in Italia Ding Wei. "L'identità della Cina contemporanea", un titolo che "alza l'asticella" delle aspettative contenutistiche, per mutuare un termine che Romeo Orlandi – vice direttore di Osservatorio Asia e patron dell'evento – usa per rendere l'idea di una esigenza diffusa e spesso rimandata: rafforzare la conoscenza della Cina. "Possibile che l'Italia si stia ancora chiedendo se la Cina rappresenta una minaccia o un'opportunità"?, è la domanda che circolava a margine dell'evento. Mentre l'Italia, dopo le dimissioni di Scajola, si attarda a nominare il ministro Sacconi a capo della missione di sistema in Cina partita il 31 maggio – sottovalutando l'importanza di una nomina veloce che avrebbe evitato il rischio di una diminuzione dell'importanza della delegazione cinese -, la paura anacronistica della Cina che ancora serpeggia tra gli scranni di molti esponenti della classe politica e imprenditoriale del nostro Paese, rischia di tramutarsi in uno specchio smerigliato che restituisce della Cina una immagine parziale. Romeo Orlandi, insieme a Jean-Philippe Beja (direttore della ricerca del Centre National de la Recherche Scientifique a Parigi e ricercatore del French Center for Research on Contemporary Asia) e a Zhang Boli (Decano della Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese), ha proposto una riflessione sulle caratteristiche del modello cinese, non solo da un punto di vista economico ma anche, e soprattutto, politico e sociale. "Per molti anni il miracolo cinese è stato etichettato come una miscela di bassi salari, Stato autoritario, sviluppo delle forze produttive", spiega Orlandi. "A lungo ha inoltre prosperato la convinzione dell'insostenibilità del modello, della necessità di riforme radicali, di sollevazione degli emarginati che non hanno intercettato i vantaggi della crescita. Il tempo ha smentito queste scorciatoie interpretative: l'emersione del paese non è stata miracolosa, ma dovuta a decisioni politiche lungimiranti e cogenti". E proprio la crescita dell'economia cinese, coniugata alla stabilità politica, ha lasciato increduli persino i più scettici: il socialismo di mercato "con caratteristiche cinesi", saldato con il cemento del nazionalismo, sembra aver dimostrato che il benessere economico è slegato dalla democrazia politica. Una formula in apparenza contraddittoria si sarebbe rivelata ben più salda delle democrazie occidentali in tempo di crisi: la Cina regge, l'Occidente arranca nella gestione di due crisi da essa originate nell'arco di due anni (dai mutui subprime negli Stati Uniti all'attuale crisi greca). Ma non sono gli effetti della crisi internazionali sull'economia del Dragone a costituire l'ossatura tematica del seminario. La issue è definire nuove categorie analitiche per studiare un modello inedito – "un percorso teorico mai replicato" -, che continua a sfuggirci di mano. A 60 anni dalla nascita della Repubblica Popolare, la Cina ha dimostrato che il Partito unico seduce gli imprenditori e sintetizza le istanze sociali; che la ricchezza di una nazione si può basare sulla disciplina, non solo sulla creatività. La Cina che si è aperta alla globalizzazione proteggendo la propria diversità, è la stessa Cina che porta avanti uno sviluppo economico trainato dalle disuguaglianze sociali. Le contraddizioni latenti – paese industrializzato ma contadino, arretrato ma moderno – non dovrebbero creare un solco nella stabilità cinese? La risposta non è così secca se parliamo di un Paese che segna traguardi da record sui fronti antagonistici: da un lato, campagne e città non sono mai state così distanti (nel 2009 il reddito medio di un residente urbano si è attestato a quota 17.175 yuan, circa 1800 euro, contro i 5153 yuan percepiti da un abitante delle zone rurali, un rapporto di 3,33 a1 che registra la più ampia disparità mai registrata dal 1978, l'anno in cui vennero varate le prime riforme economiche); dall'altro, la Cina è un tributo al capitalismo.
Un modello che funziona? La nuova influenza geopolitica della Cina ne favorisce un posizionamento di alto profilo nello scacchiere internazionale, sia nei dialoghi a due con l'Aquila, sia come campione dei paesi del terzo mondo. "Quando la Cina diventerà leader mondiale, rimettendo a posto le lancette della storia, marcherà un evento epocale ma non apocalittico per l'Italia", chiosa Orlandi. La Cina è però un gigante dai piedi d'argilla. Quanto è solida la sua classe politica? Siamo a un passo da un cambiamento epocale, sostiene Jean-Philippe Beja. Nel 2012 – quando è previsto un importante ricambio generazionale nella leadership cinese – il governo cinese si troverà ad affrontare una "successione istituzionalizzata": per la prima volta il successore del numero uno non sarà nominato da una personalità carismatica."Dopo il successo dei Giochi olimpici, la direzione del Partito appare molto tesa". Nel post 4-giugno 1989, mentre il Dragone correva sulle ali del miracolo economico, il dibattito politico si ingessava. Hu Jintao, per evitare il ripetersi di una nuova Tiananmen, ha asserragliato i ranghi, ha rafforzato l'unità del Partito unico, ha imposto un controllo totalitario sulla società civile – impedendo la nascita di organizzazioni indipendenti attraverso, ad esempio, la creazione di ONG governative -, ha moderato l'autoritarismo attraverso il mantenimento di alcune valvole di sfogo facendo leva sull'orgoglio nazionalistico, ha siglato con gli intellettuali e gli imprenditori un nuovo patto sociale – riassunto nella formula delle "tre rappresentatività" di Jiang Zemin -, garantendo ricchezza in cambio della depoliticizzazione dello scontento sociale. Infine, ed è l'aspetto prioritario, ha definito la linea di successione, nominando come suoi "eredi" Jiang Zemin e poi Hu Jintao. Se negli ultimi venti anni il processo di riforma politica si è arenato, oggi potremmo cogliere dei segnali di cambiamento. Non sono soltanto i dibattiti teorici alimentati in seno alla Scuola Centrale del PCC sulla necessità di limitare l'egemonia del Partito Unico e sbloccare il processo di separazione dei poteri, ma anche i sintomi di una crescente insofferenza che provengono dalla società civile: l'aumento delle tensioni sociali, secondo Beja, ostacolerebbe oggi l'approccio denghista. Gli scontri in Tibet, le insurrezioni nello Xinjiang, l'arresto di Liu Xiaobo (uno dei firmatari di Carta 08), sono solo alcuni degli episodi che rivelano la difficoltà del PCC di gestire le crescenti tensioni interne attraverso la formazione di un consenso "tecnico".La Cina, investita dalla crisi finanziaria a cui ha saputo rispondere con un tempestivo pacchetto di stimoli, sta vivendo un anno difficile e deve gestire la transizione del modello di sviluppo tra l'incudine e il martello: da un lato, deve continuare a garantire la stabilità interna e gestire il nuovo surriscaldamento dell'economia (lotta al credito facile, gestione dello scenario inflazionistico, rischio di una bolla speculativa nel settore immobiliare e azionario, ecc.); dall'altro, si trova a reagire alle crescenti pressioni esterne (la richiesta di un immediato apprezzamento dello Yuan, il ricorso dell'Occidente a misure protezionistiche per difendersi da una presunta concorrenza sleale, la gestione del dossier Iran, i rapporti non privi di tensione con gli altri paesi del BRIC, ecc.). Zhang Boli spiega l'impatto dell'annus horribilis – il 2009 – sul ruolo della Cina nel processo di globalizzazione. Mentre il modello cinese – il Beijing Consensus – diventava oggetto di analisi da parte dei media internazionali, la Cina si trovava a reagire con difficoltà a una crisi di proporzioni globali che ha rischiato di mettere in ginocchio l'economia del Paese, riducendo il volume delle esportazioni, causando un incremento della disoccupazione con gravi ripercussioni sui lavoratori migranti di ritorno nelle provincie natie. La Cina ha dimostrato di che stoffa è fatta e il 2009 si è chiuso con una tasso di crescita del PIL del 8.7%, tirandosi fuori dalla crisi con lo stupore della comunità internazionale, contribuendo finanche al riassetto dell'economia mondiale. Ma il pacchetto di stimoli varato alla fine del 2008 pari a 400 miliardi di euro ha anche prodotto qualche distorsione (e anche alcuni arresti), e la Cina ha oggi nuove sfide davanti a sé. La crisi ha reso ancora più evidente i rischi di una economia legata al mercato delle esportazioni e agli investimenti diretti esteri, e quindi la transizione verso un modello economico basato sull'aumento dei consumi interni - attraverso l'attivazione di leve sociali quali, appunto, la riforma del welfare - e sulla riconversione dei processi produttivi è sempre più urgente. Una sfida resa difficile
dalla pesante eredità dello sviluppo economico disarticolato degli ultimi vent'anni che ha reso la Cina un gigante dimezzato, con pesanti lasciti in termini di inquinamento ambientale e fabbisogno energetico. Zhang Boli riassume la posizione ufficiale della Cina sulla necessità di rifondare la stabilità di un modello di crescita sostenibile puntando sull'architrave della competitività. Governance, energia, cambiamento climatico, welfare: sono alcuni dei tasselli che la Cina deve puntellare per fortificare la propria leadership. Essere diventati la terza potenza mondiale è motivo di orgoglio ma il prezzo da pagare è molto alto: senza una "rivoluzione tecnologica", sostiene Zhang, la Cina rischia di perdere il treno della globalizzazione. Una posizione che tradisce un certo livello di preoccupazione. Quali sono le misure adottate dal governo cinese per trasformare copernicamente il modello di sviluppo economico del Dragone? Zhang le ingloba nella formula della "otto accelerazioni": risoluzione dei problemi strutturali; acquisizione del vantaggio strategico nella futura competizione scientifica e tecnologica; saldare solide fondamenta (rafforzare l'industria agricola); garantire la tutela ambientale; promuovere lo sviluppo coordinato dell'economia e della società; promuovere un'ulteriore apertura dell'economia. Zhang rilancia il socialismo con caratteristiche cinesi a due anni dal trentesimo anniversario della politica della porta aperta, dando appuntamento al 2027 per il centenario della nascita del PCC e al 2049 per il centenario della nascita della RPC. Due anniversari importanti che costituiscono la deadline entro cui la dirigenza cinese vorrebbe consegnare al mondo, e soprattutto ai cinesi , una società armoniosa e democratica. Mentre Romano Prodi, come spiega in una recente intervista ad AgiChina24, ravvisa nel cambiamento del linguaggio politico gli elementi di un rinnovamento che sta trasformando il Paese in una "growing cooperative China", Zhang non sembra superare gli aspetti ideologici e torna ad affermare l'adesione culturale del Partito ai principi marxisti. E a chi sostiene che la Cina abbia preso la strada del capitalismo fin dall'inizio della riforma denghista, Zhang risponde senza mezzi termini: "Si tratta di una falsa interpretazione. Il socialismo con caratteristiche cinesi assume aspetti ben precisi: il sistema economico è basato sulla coesistenza tra proprietà pubblica e privata, tra redditi da lavoro e altri meccanismi di distribuzione del reddito; il sistema politico è basato sul mantenimento dell'unità armoniosa tra la leadership del Partito, la 'rule of the people' e la 'rule of law'". Mentre la classe dirigente invoca l'affermazione dello Stato di Diritto come principio garante della costruzione di una società armoniosa, c'è chi coglie nelle manifestazioni di vacillamento del consenso del PCC una contraddizione: "Il modello corporativista si trova ad affrontare sfide sempre più gravi e appare meno efficace nell'ottemperare alla necessità di preservare la stabilità interna" chiosa Beja; "Contrariamente a quel che spesso si afferma in Occidente, il regime è lungi dall'essere consolidato; in una situazione di tensione, ricorre all'inasprimento per mantenersi al potere. In tali condizioni, se da un lato le riforme liberali rischiano di non essere adottate, dall'altro un aumento delle rigidità delle risposte rischia di provocare un rinfocolarsi delle tensioni". Secondo l'intellettuale francese, il PCC sta vivendo un periodo di stagnazione. Il Partito Comunista Cinese, come abbiamo visto, nel 2012 potrebbe affrontare un test importante che forse "spiega le crescenti tensioni interne". Il Partito andrà verso un svolta riformista o verso un maggiore immobilismo?
di Alessandra Spalletta
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