Roma, 15 apr.- Giovani lavoratrici che si occupano anche della gestione della casa e dei figli; madri inclini al risparmio ma disposte a spendere qualcosa in più a beneficio della qualità del prodotto; donne interessate alla praticità e, allo stesso tempo, attratte dall'eleganza, dalla moda e dalle novità; ragazze che scelgono di servirsi di canali online per i propri acquisti e che, sensibili alle tematiche ambientali, optano per prodotti eco-sostenibili: questo il ritratto del consumatore-tipo operante nei mercati emergenti tracciato da Boston Consulting Group. E questo il nuovo target del lusso accessibile Made in Italy individuato da Confindustria, Prometeia e Sace e presentato nei giorni scorsi a Roma. "Lusso accessibile": una contraddizione in termini che sta ad indicare quei beni di consumo appartenenti ai settori alimentare, arredo, calzature e abbigliamento realizzati con materiali e design di qualità che ad oggi rappresentano il 14% dell'export italiano totale (secondo sola alla meccanica), ma che secondo le stime subirà un forte incremento grazie alla domanda proveniente dai trenta nuovi mercati. Tra questi, la Cina sembra ancora una volta il più promettente. Dal 2000 al 2008 la crescita dell'export di lusso accessibile italiano è stata molto veloce in gran parte dei mercati emergenti ma la crescita maggiore si è avuta in Cina dove si è registrato un +34,2%; e, secondo le previsioni di Prometeia elaborate sull'ipotesi dell'invarianza delle quota italiana rispetto al 2008, tra il 2009 e il 2015 l'incremento delle importazioni cinesi dall'Italia toccherà i 191 milioni di euro. Una crescita eterogenea che vede il segmento dell'arredamento conquistare il primo posto nella classifica di gradimento dei cinesi, seguito a ruota dall'abbigliamento (calzature in particolare) e dal Food&Beverage. Legato a doppio filo con il fenomeno dell'urbanizzazione, quello dell'arredamento è senza dubbio il settore più promettente: ogni anno in Cina 20 milioni di persone provenienti dalle campagne si riversano nelle città in cerca di lavoro. Con l'urbanizzazione diminuisce la dimensione media dei nuclei familiari, un fenomeno che si traduce in un maggior numero di case che necessitano di essere arredate. Ai lavoratori migranti si aggiungono quelle coppie costrette per motivi di lavoro a vivere in zone diverse della città, o del Paese, che nonostante costituiscano un nucleo familiare risiedono in case diverse. Secondo le stime tra il 2009 e il 2015 l'incremento delle importazioni di beni per l'arredamento toccherà gli 887 milioni di euro. Per le imprese italiane quindi gli spazi di crescita appaiono significativi specie se si mira a soddisfare la richiesta cinese di mobili versatili, facilmente lavabili, ergonomici e dal design curato. Ampiamente battuta ma ancora vincente è invece la strada delle importazioni nel settore dell'abbigliamento. Se le più famose case di moda italiane sono arrivate da tempo negli armadi dei cinesi più facoltosi, il vestiario offerto dalle medie imprese si è fatto conoscere poco tempo fa. In soli otto anni la quota di mercato dell'Italia sulle importazioni di prodotti d'abbigliamento è aumentata considerevolmente: dallo 0.5% del 2000 al 7,7% del 2008., complice la crescita della ricchezza media e dell'occupazione delle donne, per le quali l'acquisto di moda è anche espressione di rivalsa sociale e di indipendenza economica. E mentre i grandi marchi si sono localizzati per lo più nelle metropoli, i marchi meno conosciuti si stanno dirigendo verso le città di seconda fascia dove aprono flagshop e boutique monomarca.
Più delicata è invece la questione della diffusione dei prodotti alimentari italiani: "sebbene molti cinesi conoscano i nostri prodotti – spiega Beniamino Quintieri, commissario generale del governo per l'Expo di Shanghai - non significa che bevano e mangino italiano". Sembra che le importazioni di F&B della Cina siano destinate ad aumentare del 50% nei prossimi sei anni, l' Italia quindi deve necessariamente educare quanto prima il consumatore cinese al gusto e alla qualità del cibo italiano.
Ma al di là delle effettive opportunità di guadagno e sviluppo, bisogna costatare che tanto più il mercato cinese appare promettente quanto più risulta, nella pratica, difficilmente accessibile. Studiare la domanda, creare accordi, appoggiarsi a distributori già localizzati sul territorio e a esperti di marketing: è questo il più grande investimento che le aziende italiane possano fare in Cina. Se a primo impatto appaiono come attività marginali sulle quali risparmiare, queste si riveleranno a lungo termine mosse vincenti senza le quali è impossibile trovare un proprio posto. A volte, pero', queste misure non sono sufficienti a superare quegli ostacoli che consistono principalmente in barriere commerciali e mancanza di catene distributive. Al contrario di altri Paesi che possono contare su proprie catene di distribuzione - Francia in primis con Carrefour -, l'Italia manca dell'appoggio di big retailer tramite i quali veicolare i propri prodotti, con il rischio di sottostimarne il valore. Eccezion fatta per alcuni marchi alimentari di fama internazionale, molti alimenti Made in Italy vengono spesso proposti al consumatore senza una giusta presentazione – molte etichette presentano solo la dicitura italiana – che ne giustifichi il prezzo più elevato e giacciono sugli scaffali. Dallo studio di Prometeia, Confindustria e Sace è emerso inoltre che "il raggio d'azione dell'Italia si indebolisce all'aumentare della distanza: mentre nei mercati più vicini (fino a 3000 Km) la presenza italiana è abbastanza forte, nei mercati più lontani (3000-9000 Km) la distribuzione è più frammentata" spiega Alessandra Lanza, responsabile analisi e ricerca economica presso Prometeia . La soluzione proposta da Prometeia è quella di provare a fare squadra tra settori contigui e non concorrenti e di colmare la distanza fisica attraverso lo sviluppo del commercio on-line, ancora troppo acerbo. A questi ostacoli si aggiungono poi i dazi tariffari e non imposti dal governo. Abbigliamento e alimentare i settori più colpiti: regole inerenti l'etichettatura dei prodotti alimentari confezionati (General Standard of Labeling), ispezioni, non adesione a standard internazionali e ritardi nelle risposte a richieste di autorizzazioni, nel caso del primo settore; dazi tariffari differenziati a seconda che si tratti di un tessuto in fibre naturali o artificiali, nel settore dell'abbigliamento per quanto riguarda il secondo.
Un mercato cinese da conquistare quindi con la giusta strategia mescolata agli ingredienti base del Made in Italy: stile, gusto e qualità. Temi questi che verranno riproposti anche nel padiglione italiano dell'Expo di Shanghai dove il top dei prodotti italiani sarà in vetrina per più di sei mesi, un' occasione imperdibile secondo Quintieri più vantaggiosa di qualsiasi catena di distribuzione "per arrivare al cuore e alle tasche dei consumatori".
di Sonia Montrella