Paolo Bricco
MILANO
Nessuno ti fa festa, se te ne vai. Semmai, la festa, provano a fartela. La recessione accelera i processi di dismissione delle filiali e degli stabilimenti all'estero. Le imprese italiane, fortemente connesse ai loro territori di origine, preferiscono chiudere o ridurre l'impegno lontano da casa dove, invece, i legami con le comunità locali e la forza del sindacato rendono tutto molto più complicato. Anche se queste decisioni, spesso, sono accompagnate da grattacapi: le facilitazioni burocratiche garantite all'arrivo cedono il passo a mille impedimenti, il trattamento fiscale diventa particolarmente oneroso, le questioni valutarie si accompagnano a quelle logistiche dello smobilizzo.
Numeri certificati, non ce ne sono ancora. Ma, in questo inverno della globalizzazione, si colgono i primi segnali. Perché la recessione sta facendo venire al pettine i nodi di una delocalizzazione non sempre felice. E, così, alcune criticità strutturali si intrecciano con le difficoltà della fuoriuscita. Il clima, da favorevole che era, si incupisce rapidamente. E scattano meccanismi strani. «Per evitare il licenziamento collegato alla chiusura di un mio stabilimento in Romania, in 250 si sono messi in malattia - dice l'imprenditore Eugenio Costantini, veronese di 61 anni da 25 nell'Est Europa - nessuna autorità pubblica ha controllato che stessero veramente male». In Moldavia e in Romania, Costantini è titolare della Teba Industries, tessile e confezioni, che da 6.500 addetti è scesa a 1.500. I problemi della ristrutturazione si inseriscono in una tendenza, quella della delocalizzazione, segnata da alcuni fattori negativi: «Qui all'Est una volta trovavi fior di ingegneri tessili, con l'arrivo di molti altri imprenditori forestieri la concorrenza per la manodopera qualificata si è fatta spietata. Anche per questo, crisi o non crisi, riduciamo». La prossima frontiera di Costantini, per la manodopera low cost, è il Bangladesh.
Gli fa eco, sul piano delle difficoltà di sistema acuitesi con la recessione, il vicentino Moritz Possamai, che di recente non ha rimpiazzato 200 dei 1.400 dipendenti della sua Grecale Impex impegnata, nella provincia romena di Tulcea, nelle confezioni: «Non è più come prima. Con l'ingresso di Bucarest nell'Unione europea, l'adozione delle direttive rende la burocrazia più complessa e farraginosa».
Alle braccia aperte di prima, dunque, corrispondono le braccia chiuse di adesso. «La burocrazia - spiega Matteo Rapinesi, socio dello studio professionale Cristofori che nelle sedi di Milano, Torino e Verona segue per i suoi clienti molti dossier caldi su questo fronte - è solo una delle questioni da affrontare quando una azienda si disimpegna dall'estero. Un altro è il prelievo fiscale, con alcuni dei Paesi strategici per la delocalizzazione e l'internazionalizzazione delle imprese italiane, come la Cina, gli Stati Uniti e la Germania, orientati a pretendere il prelievo fiscale sugli elementi intangibili del patrimonio, per esempio sull'avviamento della consociata. Alla sua chiusura, vengono tassate le plusvalenze implicite che si sono create negli anni». In questo frangente delicato, anche il capitalismo italiano mostra alcune debolezze. «Negli anni 90 - osserva l'economista Marco Mutinelli, gestore della banca dati Reprint sull'internazionalizzazione del Politecnico di Milano - hanno delocalizzato molti imprenditori poco strutturati, alla ricerca soltanto di un minore costo del lavoro. È chiaro che, senza uffici legali adeguati e competenze ben definite, i problemi possono diventare molto significativi».
Con il Governo della Slovacchia nessun intoppo, né burocratico né fiscale, per Fabio Illetterati, amministratore delegato di Tde Macno, azienda specializzata in convertitori per motori elettrici che ha appena chiuso l'unità tecnico-produttiva del distretto di meccatronica Samorin, lasciando a casa una decina di dipendenti: «Zero problemi o ritorsioni. Hanno capito anche loro: la crisi è dura per tutti. Noi abbiamo preferito concentrare gli sforzi sullo stabilimento di Vicenza. In Italia, abbiamo chiesto l'autorizzazione per l'utilizzo della cassa integrazione, perché non sappiamo come andrà questa crisi. Per ora, non vi abbiamo ricorso. Stiamo facendo di tutto per la nostra gente, i nostri 60 dipendenti. La focalizzazione sul nostro Paese è stata anche una scelta etica». A Samorin, dove si trova la meccatronica orientata all'automotive, la crisi è rilevante. Su una quindicina di aziende impiantatesi negli ultimi anni dall'Italia, una decina hanno ridotto il personale o hanno addirittura chiuso. Dei 300 addetti di prima della grande crisi, si stima che siano rimasti all'incirca la metà.
Non c'è solo l'Est Europa, dove peraltro la convenienza a localizzarsi si sta strutturalmente riducendo, dal momento che poco alla volta si stanno assottigliando le differenze con la media europea del costo del lavoro. In Cina, dove si trovano 1.300 imprese italiane con 650 stabilimenti, tutti sono con il fiato sospeso. «Molti piccoli sono tornati a casa, soprattutto fra i professionisti che si muovevano intorno al business - riferisce l'economista Giorgio Prodi, membro del comitato scientifico dell'Osservatorio Asia, rientrato due settimane fa da Pechino - gli avvocati nei ristoranti ti raccontano che non si muove palla».
Per ora, non è iniziata alcuna smobilitazione. O, se fra gli italiani ci sono state delle chiusure, si tratta di un fenomeno puntuale, nulla di paragonabile alla fuga di migliaia di imprese taiwanesi e coreane, che da settembre hanno chiuso lasciando in Cina anche gli asset materiali. In questo contesto, il Governo cinese ha emesso una direttiva, indirizzata agli imprenditori cinesi dai ministeri del commercio, degli affari esteri, degli interni e della giustizia. Il tema è come fare quando il socio straniero va via. «In realtà - osserva Prodi - il messaggio è soprattutto politico. Pechino dice agli investitori stranieri: state attenti, non potete fare quello che volete». Questa maggiore "attenzione" il paio con normative vigenti da tempo. «Sei hai costituito una società direttamente in Cina e la vuoi chiudere - continua Matteo Rapinesi, dello Studio Cristofori - il rimborso degli apporti del socio, effettuati in renminbi, è subordinato a una serie di vincoli autorizzativi di carattere valutario». Anche gli investimenti sono fatti in renminbi. «E so bene - conclude un operatore italiano - che se chiuderò bottega, non sarà facile smobilizzare e poi riuscire a convertire quanto otterrò in dollari, da fare uscire poi dal Paese».
paolo.bricco@ilsole24ore.com
Fotografia e tendenza della delocalizzazione
IL TAGLIO
-50%
Meno addetti
A Samorin, in Slovacchia, con la grande crisi il distretto della meccatronica ha visto gli occupati calare da 300 a circa 150. Stanno ristrutturando 10 delle 15 aziende italiane.
LE AREE DI PROVENIENZA
LE ZONE DEGLI INVESTIMENTI
08/03/2009