Luca Vinciguerra
SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
Alberto Zamperla ha una società in Cina che produce giostre per il mercato locale. Qualche giorno fa, ha scoperto che per andare a visitare la sua fabbrica oltre la Grande Muraglia deve avere in tasca un invito ufficiale di un ente governativo cinese, deve mostrare il biglietto aereo con la prenotazione di ritorno in Italia e deve esibire anche il voucher dell'albergo. Sennò, niente visto d'ingresso.
Il caso del re delle giostre veneto è solo uno dei tanti. Senza clamore e senza annunci ufficiali, da metà aprile la Cina ha imposto un giro di vite alla concessione dei visti F (quelli rilasciati per motivi di lavoro), mettendo nei guai gli imprenditori di mezzo mondo. Basta ai cosiddetti multi-entry visa, strumento indispensabile per coloro che non sono residenti nel Paese ma che per motivi professionali fanno avanti e indietro con la Cina. D'ora in avanti a imprenditori, manager, impiegati, tecnici di aziende straniere in trasferta oltre la Grande Muraglia le autorità cinesi concederanno solo visti a ingresso unico della durata massima di 30 giorni. «È un provvedimento assurdo che danneggia l'operatività delle imprese straniere in Cina. In questo momento, abbiamo decine di clienti bloccati o costretti a rivedere i loro piani di viaggio», commenta un consulente legale di Shanghai.
Tanto più assurdo se si pensa che il provvedimento varato in sordina da Pechino colpisce anche gli stranieri residenti a Hong Kong. La stragrande maggioranza degli uomini d'affari che vivono nell'ex colonia britannica hanno strette relazioni con la Cina, soprattutto con la confinante provincia del Guangdong dalla quale vanno e vengono anche con cadenza quotidiana. D'ora in poi, ogni volta che questi ultimi vorranno varcare il confine con la terra ferma, dovranno produrre l'adeguata documentazione, recarsi al Consolato cinese, mettersi in coda e attendere la restituzione del passaporto. Oltre che, naturalmente, pagare il servizio.
«Lo stop al rilascio dei visti multi-ingresso ci preoccupa notevolmente perché avrà dei pesanti effetti negativi sull'attività dei nostri associati», ha tuonato la Camera di Commercio europea a Hong Kong, denunciando l'arbitrarietà delle nuove disposizioni e anche la scarsa trasparenza nella comunicazione mostrata dal Governo cinese in una questione tanto delicata.
Ma c'è poi un'altra novità destinata a procurare qualche mal di testa anche agli stranieri regolarmente residenti in Cina. Dal 15 aprile, questi ultimi ogni volta che rientreranno nel Paese da una trasferta all'estero (compresa Hong Kong), dovranno recarsi alla più vicina stazione di polizia per notificare l'avvenuto rientro. In caso di mancato adempimento, scatteranno multe salate. Per costringere gli stranieri ad adeguarsi alle nuove regole, da qualche giorno la polizia di Shanghai sta conducendo ispezioni a tappeto nei palazzi e nei quartieri abitati prevalentemente dalla comunità internazionale.
«Il blocco dei visti multi-ingresso è un serio problema per le aziende straniere, non solo sotto il profilo operativo, ma anche sotto quello dei costi diretti e indiretti che ovviamente aumenteranno. Speriamo davvero che si tratti di una misura temporanea legata a fattori contingenti», osserva Maurizio Forte, direttore dell'Ice a Shanghai.
E di questo, in effetti, dovrebbe trattarsi. Sebbene il Governo cinese non abbia ufficializzato le nuove misure, limitandosi a dire che per gli stranieri nulla è cambiato, il giro di vite sui visti d'ingresso è ovviamente legato all'imminenza delle Olimpiadi. Per minimizzare i rischi di attentati terroristici durante i Giochi di Pechino del prossimo agosto, la Cina vuole filtrare scrupolosamente tutti gli stranieri che entrano ed escono dal Paese. Per questo motivo, da metà aprile i cittadini di 33 Paesi in odore di terrorismo (tra questi Filippine, India, Iraq e Indonesia) potranno richiedere il rilascio di un visto d'ingresso in Cina solo presso i Consolati cinesi nei loro paesi d'origine. Tutta colpa della rivolta tibetana? «No, il Tibet non c'entra nulla. La Cina avrebbe adottato questi provvedimenti restrittivi anche se non si fossero verificati gli incidenti di Lhasa. In fondo, quattro anni fa, prima delle Olimpiadi di Atene, anche la Grecia chiuse i rubinetti dell'emigrazione dai Paesi non appartenenti alla Ue», spiega un esperto di pubblica sicurezza.
lucavin@attglobal.net
Recessione alla cinese
La soglia minima dell'8%
Nei primi tre mesi del 2008 il Pil cinese è cresciuto del 10,6% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, mentre nell'intero 2007 l'aumento rivisto è stato dell'11,9%. L'economia continua dunque a correre, anche se a velocità leggermente inferiore, ponendo problemi sul fronte del sempre temuto surriscaldamento dell'economia. Ma un difficile gioco di equilibrio è in corso a Pechino, dove obiettivi prioritari sono controllare un'inflazione a livelli allarmanti (8,3% a marzo), ma anche impedire che la crescita del Pil, a causa della recessione Usa, vada sotto l'8%. Sarebbe recessione alla cinese. Solo sopra infatti l'economia può creare i 10 milioni di posti di lavoro l'anno necessari a garantire
lo sviluppo e a disinnescare possibili tensioni sociali
22/04/2008