Marco Masciaga
NEW DELHI
Il boicottaggio contro il regime di Myanmar, promosso da marchi come Tiffany, Cartier e Bulgari, non ha fatto fallire l'asta di pietre preziose che si è chiusa lunedì a Yangon, ma ha invertito la tendenza che da anni vedeva crescere le vendite e ha ridimensionato gli introiti della giunta militare.
Secondo un portavoce della Myanmar Gems Enterprise, la compagnia estrattiva statale, in 13 giorni di contrattazioni il Governo avrebbe incassato circa 150 milioni di dollari: la metà del target che si era dato all'apertura dell'asta e 35 milioni in meno rispetto ai 185 del marzo 2007. Quell'appuntamento aveva segnato l'ennesimo balzo in avanti nelle vendite (+40%) rispetto ai 125 milioni di dollari incassati a ottobre del 2006 e quasi triplicato il dato del luglio dello stesso anno. Il fatturato dell'asta di luglio 2007 non è mai stato divulgato, ma potrebbe essere il più alto di sempre in virtù della vendita record di circa 4.500 lotti di giada, gemme e perle. Nelle ultime due settimane ne sono stati "battuti" 900 in meno.
Se il boicottaggio, pur ridimensionando gli incassi, non ha fatto andare deserta l'asta è soprattutto merito dei compratori cinesi. Circa il 90% dei 2.300 stranieri presenti provenivano dal Paese che più di ogni altro, in questi mesi di accerchiamento diplomatico, ha difeso la giunta militare impedendo l'imposizione delle sanzioni delle Nazioni Unite. Gli altri acquirenti sono arrivati perlopiù dalla Thailandia, dove, per aggirare l'embargo statunitense, vengono lavorati gran parte dei rubini estratti a Myanmar. Ma il Congresso sta per approvare una legge che impedirà l'importazione non solo delle gemme provenienti direttamente dal Paese, ma anche di quelle fatte lavorare all'estero. Un provvedimento destinato a colpire la Myanmar Gems Enterprise, che lo scorso anno ha portato nelle casse dello Stato 296,9 milioni di dollari, facendo dell'industria delle pietre preziose la terza fonte di finanziamento per il regime dopo i combustibili fossili e il legno.
28/11/2007