La rivoluzione dello smart working nelle città e nelle case
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La rivoluzione dello smart working nelle città e nelle case

Lo smart working ci porterà a ripensare le nostre abitazioni per ricavare un ufficio tra le mura domestiche? Lavorare da casa sarà un vantaggio per i più giovani, o al contrario rischia di metterli in ulteriore difficoltà? Quali ripensamenti attendono le nostre città? La seconda puntata di un viaggio nel nuovo modo di lavorare imposto dalla pandemia di coronavirus​. A  cura di Marco Gritti e Maria Teresa Santaguida.  

Flavio Lo Scalzo / AGF
Flavio Lo Scalzo / AGF

“Dobbiamo bloccare il consumo di suolo: le città dovranno ritrarsi e restituire al mondo degli animali selvatici spazi che restano fuori dal controllo dell’uomo”. Lo immagina così il mondo post coronavirus Stefano Boeri, archistar, autore del più ‘bel grattacielo del mondo’, il Bosco Verticale, che ha reso Isola, ex quartiere popolare di Milano, una delle zone della città più ‘cool’ da vivere.

In una conversazione con l’AGI l'architetto milanese rivela come sta già immaginando la città del futuro, influenzata da quelle abitudini che ci porteremo dietro per molto tempo - e forse per sempre - come il ‘distanziamento sociale’. “Dobbiamo far sì che questa imprevista catastrofe non passi senza avere prodotto un ripensamento vero sulla città, sulla convivenza, sulla mobilità. Sul modo in cui concepiremo la salute: ci sono una serie di temi fondamentali che ci chiamano in causa”, insiste Boeri. 

Primo punto: il verde. “Dobbiamo avere più verde nelle città e questa deve diventare un’esigenza improrogabile e molto forte”. ‘Piantare un albero per cittadino’, si diceva nei piani che ispiravano, ad esempio, la Milano del 2030, “ma ora deve essere fatto in tempi molto rapidi e con un progetto definito. Non basta piantare alberi, bisogna creare nuove situazioni di spazio collettivo che non prevedano per forza la concentrazione delle persone. Spazi pubblici non focalizzati. Un esempio potrebbe essere la ‘Biblioteca degli alberi’ di Milano: un parco che non ha un centro, e che in questi momenti in cui la città è chiusa - e anche i parchi recintati lo sono - è diventato uno dei pochi posti dove si può andare senza incontrarsi”. Insomma “un modello non basato sul tema della concentrazione”.

A loro volta, non guardando più soltanto il proprio ombelico, ma guardandosi intorno, le città dovranno pensare a delle cinture di aree protette attorno a sé: “Corridoi ecologici” appena fuori dalle proprie ‘mura’.

D’altra parte, se c’è una cosa che il Covid-19 ci ha insegnato è che il salto di specie, lo ‘spillover’ compiuto dal coronavirus, è dovuto ad un’invasione dell’uomo in un mondo che non era il suo. Quel microbo che abitava serenamente nel pipistrello asiatico, ha trovato il modo di arrivare in una specie di origine africana, il pangolino, tramite il mescolamento artificialmente operato dall’uomo nel caotico mercato di animali al centro di una città da 15 milioni di abitanti. Un obbrobrio biologico che ha dato il via alla serie di eventi catastrofici che hanno travolto alla fine la nostra specie.

Ma che cosa possiamo imparare? “Portiamo a conclusione il corridoio ecologico sulla dorsale appenninica, costituito da una un grande sistema di riserve che restituisca spazi alla vita delle altre specie”. 

Per molti di questi motivi, per Boeri, il futuro è la “megalopoli diffusa”: “Una delle grandi questioni che emergerà nei prossimi anni sarà il tema della dispersione”. Con il linguaggio dell’architettura che è anche un po’ filosofia, l’architetto ci spiega che “la prossimità dei corpi resterà un tema aperto: andremo verso una spinta, un bisogno, un desiderio di forme di comunità e coabitazione che richiedono di diluire la concentrazione dei corpi”. 

Ecco perché Roma “è il futuro”: “E’ il suo momento. Una città che ha un territorio immenso e ingloba al suo interno tante porzioni di storia stratificate, grandi spazi aperti, pezzi di cultura e di zootecnia. Da un lato ci sono le città che competono e che hanno diverse gerarchie e poi c’è Roma, che è il mondo. Al contrario, Milano post-coronavirus “passerà un momento difficile perché è l’opposto: è la città della concentrazione, una piccola metropoli basata sulla densità”. 

“Decentrare” le città è dunque il motto che ci guiderà: “Dovremo pensare a smistare sul territorio la nostra struttura sanitaria. Il lavoro degli ambulatori e dei medici di quartiere è fondamentale e non c’è stato abbastanza in Lombardia”.

Altro punto: l’energia. “Pensiamo e attuiamo finalmente un un modello di energia reticolare e decentrata. Sfruttiamo le innovazioni come la geotermia o le batterie a idrogeno e creiamo sistemi di di autosufficienza energetica nei quartieri. Alcune zone metropolitane potrebbero  produrre più energia di quanta non ne consumino”. 

L’obiettivo finale è uno: ridurre i gas serra. “La produzione di polveri sottili e di CO2 è una delle concause del contagio in Lombardia. Quindi questa è una questione cruciale: è di un’urgenza necessaria”. 

Per Boeri il ‘se non ora quando’ del post pandemia ruota attorno ad una scelta radicale: “Decidere di abbandonare per sempre la fase dei carburanti fossili, ma non con la solita retorica superficiale e inutile. Se fossi al governo ora accelererei nell’affermare che quel mondo è finito. Chiuso per sempre. Abbiamo gli strumenti per farlo: le case automobilistiche sono in grado di convertire la produzione, e va incrementato questo processo”. 

Città come “Milano e Napoli” dovranno rivoluzionare la loro mobilità. Ora. Anche perché “con lo smart working, che diventerà una condizione pervasiva, la circolazione delle idee avverrà sempre di più senza il movimento di corpi”.

Ma non solo: “Anche la circolazione delle merci. In futuro le case funzioneranno avendo una quinta facciata perché i tetti saranno dei punti importanti di accesso per il sistema delle merci con i droni. Un esempio è la città che stiamo progettando in Messico, a Cancun, con edifici verdi, che hanno la geotermia e il solare come alimentazione energetica, e accessi alla mobilità elettrica e su acqua”.

Il ‘ritrarsi’ delle città a favore della natura, poi, passerà inevitabilmente dall’abitare ‘verticale’, sostiene Boeri: “Diventerà una necessità più di prima. Avere delle proprie capsule private riducendo al minimo lo sfruttamento degli spazi, ma portando la natura dentro”. Questa l’idea che ha ispirato il Bosco Verticale italiano e i due gemelli in costruzione in Cina: “Saranno due edifici di edilizia popolare pubblica, come già avvenuto anche in Olanda, dove il Bosco Verticale ospita un progetto di housing sociale. E’ la dimostrazione questo può e deve essere accessibile a tutti. E’ un pezzo di futuro”. 

In conclusione, l’augurio è che il grande trauma che il mondo globalizzato sta vivendo e avrà vissuto a causa del virus “non passi inutilmente, che i morti, i sacrifici e le sofferenze non svaniscano senza lasciare traccia: è l’unica mia speranza”, dice Boeri. 

Invernizzi Tettoni Luca / Agf 
Invernizzi Tettoni Luca / Agf 

“La responsabilità sociale dell’architetto” al tempo del coronavirus “passa dal ripensare il modo di progettare le case”. A dirlo all’AGI è l’architetto Manuela Deiana, progettista di Milano, con una lunga carriera di lavoro sui cantieri edili per abitazioni civili.

L’idea di una rivoluzione all’interno delle case nasce dalla necessità di viverle forzosamente e per tutto il giorno a causa dell’epidemia: “Stando molto in casa ci siamo resi conto di quanto spesso le nostre abitazioni non siano abbastanza accoglienti e non abbiano gli spazi giusti”.

Nello stile di vita frenetico che ci imponeva la metropoli prima del lockdown avevamo talvolta lasciato la casa in disparte “pensandola come un luogo dove andare solo a dormire”. In quest’ottica gli spazi potevano essere ridotti e trattati spesso come un deposito di oggetti affastellati. “Costretti allo smart working invece ci siamo resi conto che dobbiamo usare la casa per vivere bene: quello che noi italiani sappiamo fare da sempre”. Nel vivere bene sono inclusi i concetti di “mangiare bene” e dunque avere un luogo “accogliente dove cucinare e condividere i pasti”, ma anche possedere un angolo “dove lavorare nelle condizioni giuste”.

Con la giusta illuminazione, e la giusta postura. Infatti, da semplici abitazioni le nostre case si sono rapidamente trasformate anche in uffici e palestre, quindi perché non pensare “anche ad un angolo per lo sport”?. Il suggerimento dell’architetto è quello di “eliminare il superfluo e lasciare spazio al funzionale. Meno pareti su cui appoggiare credenze inutili e finestre più grandi per far entrare la luce”, ad esempio.

Da questo nasce l’idea di una chiamata ai colleghi, soprattutto milanesi, lanciata con l’hashtag #architetturasociale: “In attesa della ripresa economica, potremmo offrirci per consulenze gratuite sulla riorganizzazione degli spazi”, con una task-force che potrebbe cominciare subito dopo l’emergenza. Inoltre c’è anche da pensare in termini economici, perché alla fine dell’epidemia si presenterà in tutta la sua tragicità la crisi, con il mercato immobiliare che ne subirà le conseguenze: “Molti non potranno comprare una nuova casa” e per questo sarà importante riorganizzare il già costruito.

AGF
AGF

Per il futuro però “c’è bisogno di una rivoluzione nella progettazione”. Che significa “ripensare i rapporti illuminanti, e l’areazione degli spazi che devono essere vissuti durante tutta la giornata, non solo la sera”.

Tra le certezze che abbiamo già da ora c’è quella che il coronavirus ci ha dimostrato come per molti lavori lo smartworking, magari limitato solo ad alcuni giorni alla settimana, sia il futuro: “Dobbiamo pensare a produrre bene, non ad essere stressati” suggerisce l’architetto Deiana, “il tempo di solito impiegato per gli spostamenti in città, potrebbe diventare tempo recuperato in casa e dedicato alle passioni e al piacere. Ma dobbiamo avere abitazioni adeguate”.

Il terreno ideale per questa forma di sperimentazione progettuale potrebbero essere gli Scali ferroviari di Milano, il grande disegno che trasformerà la città nei prossimi anni, creando nuovi quartieri tutti intorno al centro, dove ora ci sono le aree di fatto abbandonate delle ex stazioni: “Il modello Milano potrebbe allargarsi anche ad un nuovo modo di realizzare gli edifici e gli alloggi a disposizione in quei contesti. Noi architetti siamo chiamati a ragionare su questo, soprattutto oggi”. E’ possibile infatti che il futuro ci riservi “altri periodi in cui siamo obbligati a vivere di più in casa, o che aumenti la quota di smart working”. Già il solo pensiero di farlo con piacere potrebbe essere la rivoluzione. 

La parola d’ordine è “flessibili”: è così che dovranno essere le nostre case-ufficio del futuro, quando lo smart working dell’era coronavirus non sarà più un’imposizione dei tempi, ma magari una scelta ponderata del lavoratore e concordata con il datore di lavoro. 

È così che anche il design degli oggetti con cui riempiamo la nostra casa dovrà essere “fluido” e per adattarsi sempre di più “all’umano che lo usa”. Questo è anche (da sempre) il focus dell’ergonomia, quella parte del design ‘che si occupa di individuare di postazioni adatte al lavoro’ con il fine di ‘creare una situazione di benessere psicofisico’.

Fine del manuale. Perché l’ergonomia del futuro sarà prima di tutto “cognitiva”, e i manuali potrebbero servire a poco. Soli a casa, “davanti ad uno schermo” come saremo, dovremo avere la capacità di “introiettare la correttezza del comportamento e della postura, senza che ci qualcuno ce lo imponga, come in ufficio: insomma, responsabilizzarci”. A garantirlo - in una conversazione con l’AGI - è il professor Stefano Caggiano, program leader del dipartimento di Product design della dell’Istituto Marangoni di Milano.

Nelle scuole di design, come questa, il coronavirus non è stata che la spinta ulteriore a “navigare nel fiume dell’ibridazione degli spazi domestici”, un concetto che aleggiava nel mondo della creatività, ma che improvvisamente è esploso: “Ci siamo trovati di fronte ad una convergenza di necessità che prima appartenevano ad ambienti diversi, dal lavoro allo sport, in un unico luogo: la casa”. 

E allora gli arredi, “quelli che chiamiamo ‘mobili’ ma che per la maggior parte del tempo sono fermi” dovranno essere più leggeri, per essere spostati e magari lasciare spazio ad un momento della giornata in cui ci alleniamo: “Un tavolo che di solito è in soggiorno potrebbe cambiare funzione: dovrà quindi essere progettato in modo da risultare leggero e trasportabile. Il designer, osservando talvolta anche gli usi impropri, può immaginare nuove soluzioni”. 

Flessibili dovranno essere però anche gli schemi mentali di chi lavora: non è detto che la postazione abituale sarà quella del ‘videoterminale’, come proponeva una vecchia terminologia burocratica. “Nessuno si scandalizzerà più di lavorare dal divano, e allora il sofà potrebbe essere dotato di braccioli ampi e piatti con tavolino d’appoggio per i dispositivi digitali, con cui assistere o tenere lezioni o fare riunioni in videochiamata”.

Secondo il professor Caggiano anche i “designer dovranno fare un passo indietro e non commettere l’errore di una ipertrofia progettuale”, ma immaginare “la disposizione dell’arredo” nella sua fluidità: “I percorsi che seguiamo in casa sono sentieri creati da come disponiamo i mobili: in futuro potrebbero cambiare spesso, e gli oggetti dovranno resistere meno ai cambiamenti”. Le stesse suddivisioni degli spazi potrebbero assumere la forma di “separé a scomparsa come tende di un teatro”. 

C’è una questione fondamentale nella giornata fluida di chi vive e lavora nello stesso posto: la scansione temporale. “Il dovere si mischia allo svago, il giorno alla notte: da un lato è una libertà assoluta, ma dall’altro richiede una maggiore assunzione di responsabilità dell’utente, anche in questo caso il lavoratore dovrà darsi delle regole, se nessuno lo farà al posto suo”. 

Anche per questo problema i giovani studenti dell’Istituto Marangoni stanno pensando soluzioni geniali: “I millennials sono davvero consapevoli di avere una dipendenza da computer e cellulare. Sugli oggetti proiettano un bisogno che è il loro: ad esempio quello di silenziare le notifiche a fine orario lavorativo. Il paradosso è che non hanno banalmente cercato la soluzione più facile: spegnere i device. Hanno invece elaborato soprammobili scultorei realizzati in materiali schermati da cui non escono e non entrano le onde elettromagnetiche”. Insomma in futuro sarà molto più naturale “mettere il cellulare sotto un coperchio per farlo smettere di funzionare, che spegnerlo”. Due gesti diversi, molto fisici, che “in ergonomia hanno però un significato profondo”, spiega il professore. 

In conclusione, lo spostamento di molte delle nostre attività sul digitale, in particolare se parliamo di meeting di lavoro ci porterà - e forse l’ha già fatto - per dirla all’inglese, ad un “take it easy” generalizzato: “Nel fare video-lezione con i miei studenti ho avuto il problema dello sfondo: la mia libreria era in disordine”, esemplifica il prof. “Ho pensato che avrei dovuto presentarmi nel modo giusto ai loro occhi, ovvero mettere in ordine la libreria. Ma ho poi riflettuto sul fatto che la domesticità fa parte della libertà personale e che il lasciare la libreria in disordine è in fondo un atto di libertà. Credo che in futuro saremo più flessibili, anche su questo. Da quando siamo tutti in quarantena abbiamo acquistato una certa familiarità con l’ambiente domestico l’uno dell’altro” e siamo più tolleranti. E’ “un’accelerazione improvvisa che porterà novità anche nel design”. 

 

SAKKMESTERKE / SCIENCE PHOTO LIBRA / AAT / Science Photo Library via AFP
SAKKMESTERKE / SCIENCE PHOTO LIBRA / AAT / Science Photo Library via AFP

Tempo, spazio, organizzazione del lavoro: lo smart working cambia le carte in tavola sotto tanti punti di vista. Lasciamo però per un momento da parte gli aspetti tecnici dell’impiego per ragionare invece dell’individuo: cioè degli effetti del lavorare da casa sulle donne e sugli uomini. All’AGI ne ha parlato Marino Bonaiuto, docente di Psicologia e comunicazione organizzativa alla Sapienza di Roma, dove dirige anche il Cirpa (Centro Interuniversitario di Ricerca in Psicologia Ambientale).

La tecnologia può illudere: non si possono sostituire completamente le relazioni

Il lavoro coinvolge due grandi aspetti, spiega Bonaiuto: le mansioni e le relazioni. “Entrambe sono importanti per una buona performance lavorativa, non solo dal punto di vista qualitativo-quantitativo, ma anche della soddisfazione e della realizzazione della persona”. Dei compiti si parla spesso: il lavoro agile si adatta soprattutto al lavoro dei cosiddetti ‘colletti bianchi’, cioè il settore impiegatizio o dei servizi. E sebbene alcune mansioni siano più facilmente fattibili in presenza che a distanza, la tecnologia può venire in loro soccorso. Quello che però lo smart working rischia di farci perdere, avverte il docente, sono le relazioni. 

“Le nuove tecnologie ci vengono incontro anche su questo, consentendoci di condividere non più soltanto la voce ma anche le immagini e tutto l’universo della comunicazione non verbale”, ammette Bonaiuto. “Ma non illudiamoci che ci possa essere una completa sostituzione”. 

“In questo momento lo smart working consiste soprattutto nello svolgere attività programmate, con un inizio e una fine molto chiare e formalizzate”, spiega il docente. Ma è negli spazi interstiziali, tra la fine di un compito e l’inizio di un altro, che perdiamo parte del valore del lavoro: ci troviamo in casa da soli, senza la possibilità di condividere i momenti di socializzazione informali, dalla pausa caffè al pranzo con i colleghi: “Non è un dettaglio, ma un elemento fondante”, prosegue Bonaiuto. Per quale motivo?

Perdiamo socialità. E paradossalmente ci rimettono i lavoratori più giovani

Quei momenti di socializzazione informale, spiega il docente, sono attimi fondamentali sia per l’organizzazione che per l’individuo: lo sono per la prima, che “si regge non solo in virtù delle funzioni e dei servizi svolti dai lavoratori, ma anche grazie al tessuto informale garantito dalla condivisione di aspetti non necessariamente legati al compito ma che cementano la relazione”. 

Ma quegli stessi momenti sono importanti anche per il singolo lavoratore: “Pensiamo ai giovani, ai neoassunti - dice Bonaiuto - A loro occorre entrare in sintonia con l’organizzazione, con cui deve imparare a condividere valori e obiettivi non soltanto lavorativi”. Una serie di elementi che in due parole possiamo definire “socializzazione organizzativa”. Si tratta, insomma, “di comprendere il ruolo, il compito, le relazioni orizzontali e verticali nel gruppo di lavoro - prosegue Bonaiuto - Tutte regole che si acquisiscono col tempo, sia sul lavoro che nei momenti informali. Se i momenti informali non ci sono, diventa tutto più difficile”.

Anche ammesso che siano avvantaggiati dal punto delle competenze in ambito tecnologico, quindi, secondo Bonaiuto i più giovani sconterebbero comunque un grave ritardo nella costruzione di quell’identità indispensabile allo sviluppo professionale. Il lavoratore esperto, al contrario, “gode già una forte identità organizzativa e sociale”. 

Il tempo, sempre più veloce e disgregato. Cancellare i tempi morti è pericoloso

Della gestione del tempo in epoca di smart working si parla molto: alle volte può essere difficile spegnere il proprio pc, disconnettersi dal lavoro, ritagliarsi del tempo per sé, cambiare la propria routine. Ma secondo Bonaiuto c’è un altro aspetto che occorre prendere in considerazione: i cosiddetti tempi morti. Ad esempio i trasferimenti casa-lavoro, o quelli necessari agli spostamenti per incontrare altre persone: “In un certo senso il tempo sta accelerando, e quei momenti vengono aboliti - spiega il docente della Sapienza - In realtà non erano così morti come si pensa, perché ci aiutavano a strutturare la giornata e avere altri contatti”.

Lo smart working, in questo caso, può però anche rivelarsi un’opportunità: “Quel tempo morto lo possiamo guadagnare per fare altre cose, ma occorre ricostruire una struttura” delle giornate. Senza una chiara definizione degli orari di inizio e fine lavoro, “tutta la struttura rischia di amalgamarsi in un unicum confuso in cui qualche persona può trovare un modus operandi, ma molte altre rischiano di smarrirsi e perdersi”.