Ecco perché nessuno può togliere a Zuckerberg la presidenza di Facebook
La maggioranza è scontenta, ma non conta. Grazie anche ad una abile gestione delle azioni

Mark Zuckerberg se ne infischia. Cresce il fronte degli azionisti che vorrebbero allontanarlo dalla presidenza di Facebook. Peccato non abbia alcuna possibilità di successo. Menlo Park ha apparecchiato una struttura azionaria che permette al suo fondatore di essere il capo di se stesso.
La proposta degli azionisti
A prendere l'iniziativa, questa volta, è stato Trillium Asset Management. Seguito dai fondi pensione di Illinois, Rhode Island, Pennsylvania e dal New York City Comptroller Scott Stringer. L'obiettivo è scindere le cariche di presidente e ceo, oggi entrambe nelle mani di Zuckerberg. Il primo dirige il board, organismo che – su incarico degli azionisti – ha il compito di valutare l'operato dell'amministratore delegato. Il fondatore di Facebook, quindi, si ritrova a giudicare se stesso, tra grandi successi (gli utenti continuano a crescere nonostante la recente frenata, fatturato e utili volano) ed enormi problemi (le influenze politiche sottovalutate, il caso Cambridge Analytica, la falla che ha esposto 29 milioni di utenti).
Il potere di Mark Zuckerberg
A cambiare gli equilibri può essere solo, in teoria, l'assemblea degli azionisti. Che sfiducia o indica i consiglieri e vota le decisioni più importanti. È qui, però, che Zuckerberg ha costruito la sua fortezza. Facebook ha due classi di azioni: quelle A vengono liberamente scambiate e valgono ciascuna un voto in assemblea; quelle B sono possedute da Zuckerberg (per tre quarti) e altri manager e assicurano 10 voti ognuna. In questo modo, il fondatore, ceo e presidente mantiene un controllo totale: possiede solo il 18% dei titoli complessivi, ma il 60% del potere di voto. Senza il suo consenso non può cambiare nulla. Questa organizzazione consente ai vertici di guardare al medio-lungo termine senza preoccuparsi di operazioni ostili da parte di frange interne o investitori esterni. Ma è chiaro che si traduce in qualcosa di molto vicino alla monarchia.
L'idea della “Classe C”
Tra il 2016 e il 2017, Zuckerberg aveva provato a rinsaldare la propria corona, proponendo un frazionamento azionario: Facebook avrebbe emesso nuovi titoli, con una modalità fatta apposta per consentire al fondatore imperituro controllo. Tutti gli azionisti avrebbero ricevuto due nuove azioni per ognuna posseduta. In pratica chi ne avesse una se ne sarebbe ritrovava in portafogli tre. Solo che i nuovi titoli “classe C” non avrebbero avuto alcun diritto di voto. In questo modo Zuckerberg avrebbe potuto vendere rapidamente i suoi titoli freschi di emissione, facendo cassa senza alleggerire di un grammo il proprio peso in assemblea.
I proventi sarebbero andati alla Chan Zuckerberg Initiative, l'associazione benefica fondata con la moglie. Mr Facebook ha infatti promesso di volersi disfare del 99% delle azioni nel corso della sua vita, ma non è certo disposto a perdere il controllo della sua creatura. Il piano “C”, già approvato dal consiglio di amministrazione, è stato poi fermato. Non tanto per l'avversione di alcuni azionisti, quanto perché non serviva più. Facebook aveva guadagnato in borsa così tanto da permettere a Zuckerberg di nutrire la sua associazione vendendo molte meno azioni e senza la necessità di emetterne altre. “Il business – ha scritto Zuckerberg in un post del settembre 2017 - sta andando così bene e il valore delle azioni sta crescendo a tal punto che posso finanziare completamente la nostra iniziativa filantropica senza perdere il controllo di Facebook per almeno 20 anni”. Amen.

La maggioranza è scontenta (ma non conta)
Trillium Asset Management e i suoi alleati sanno bene che la loro è un'azione poco più che simbolica. E che non hanno alcuna possibilità di vincere. Rappresenta però una spia di cambiamento a Menlo Park e in tutta la Silicon Valley. Ci sono già stati due tentativi di modificare la struttura azionaria, passo propedeutico al cambio della presidenza. Entrambi sono state bocciati, dando però indicazioni chiare. Secondo un'analisi di Open Mic, organizzazione che aiuta a migliorare la governance, nel maggio 2017 la proposta era stata sostenuta dal 51% degli azionisti indipendenti (cioè coloro che non hanno ruoli operativi nel gruppo). Lo scorso maggio, dopo il caso Cambridge Analytica, dall'83%. La maggioranza vuole Zuckerberg lontano dalla presidenza. Peccato che la maggioranza conti poco.
Cosa dimostra il caso Tesla
Alcune società (come Microsoft, Apple e Twitter) vietano che il ceo sia anche presidente. E la spinta per board più indipendenti cresce. Si affievolisce il mito del ceo-supereroe. Un'idea che ha due rappresentanti di punta, Mark Zuckerberg ed Elon Musk. Anche il fondatore di Tesla ha concentrato nelle proprie mani potere decisionale e cariche, ha costruito un consiglio di amministrazione che è sua diretta emanazione (con dentro il fratello, sostenitori della prima ora ed ex manager delle sue società) ed è stato il bersaglio di proposte che puntavano a cambiare presidenza. Senza però concludere nulla, nonostante la posizione di Musk (che ha il 22% delle azioni) sia ferrea ma meno blindata rispetto a quella di Zuckerberg. Per cambiare le cose c'è voluta un'uscita a vuoto del fondatore e l'intervento della Sec, la Consob americana. Niente presidenza per tre anni: è una delle condizioni dell'accordo seguito ai tweet sulla privatizzazione di Tesla e sui fondi “garantiti” per portala lontana da Wall Street. L'accordo è la dimostrazione che tutto può succedere. Allo stesso tempo, però, lascia pienamente nelle mani di Musk il controllo della società. Non basta cambiare la targhetta sulla porta dell'ufficio per far cadere un re.
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