AGI - Azionando un semplice interruttore il 15 dicembre 2000 veniva spento definitivamente il reattore n° 3 della centrale atomica di Cernobyl, rimasto in funzione per assicurare la fornitura di energia elettrica per quattordici anni dopo il disastro, ultimo dell’impianto il cui nome è legato alla catastrofe di livello 7: il massimo della scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici (Inea) dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea).
Il progetto sovietico dell’impianto più grande del mondo
La “piccolissima stella” che sembrava per sempre sepolta nel metallo e invece era stata liberata dall’uomo, come ha lasciato scritto in versi Pablo Neruda, dopo Hiroshima e Nagasaki aveva rivelato il suo “diabolico fuoco” il 26 aprile 1986 in Ucraina, nell’ex Unione Sovietica. L’impianto era stato costruito a partire dal 1972 con tecnologia Rbmk-1000 (reattore ad alta potenza a canali), moderna ma sicuramente non avanzata anche perché concepita al risparmio rispetto ai canoni e ai requisiti di sicurezza occidentali. Il complesso, intitolato a Lenin, produceva energia elettrica con la fissione nucleare ed era entrato in funzione in quattro fasi a partire dal 1978, con quattro anni di ritardo rispetto al cronoprogramma stabilito dal Consiglio dei ministri dell’Urss nel 1966. Il luogo era stato scelto a un centinaio di chilometri da Kiev ai confini con la Bielorussia, per le caratteristiche del terreno non utilizzabile per l’agricoltura o per altre attività economiche. Il nome Cernobyl era stato assegnato nel 1967. I lavori di costruzione dell’impianto erano proceduti di pari passo con quelli di una città per ospitare gli operai, i tecnici e i responsabili con le loro famiglie, chiamata Prypjat come il fiume. Se tutti i reattori del progetto iniziale, che ne comprendeva dodici, fossero stati realizzati, quella sarebbe stata la più grande centrale del mondo, dimostrando così all’esterno l’eccellenza scientifica sovietica e le sue capacità tecnologiche.
La catastrofe del 26 aprile 1986: errori umani e difetti strutturali
Quello che le autorità sovietiche non dissero, ma sapevano e avevano messo nero su bianco già nel 1983 in un rapporto tenuto segreto per decenni, era che Cernobyl lasciava alquanto a desiderare sulla sicurezza, e veniva classificata tra le più pericolose centrali del Paese. Ma l’Urss, sui fatti di casa sua, era proverbialmente impenetrabile. Neppure la qualità del personale dirigenziale e operativo, spesso designato per motivi politici e non di reale preparazione tecnico-professionale, per di più con rigida separazione tra aspetti civili e militari, era tale da saper gestire con competenza e celerità un’emergenza. Che si verificò durante un test di aumento di potenza che dal 25 aprile 1986 si protrasse alle prime ore dell’indomani, in una miscela perversa di errori tecnici e umani, impreparazione e gestione dilettantesca, che provocò una tragedia epocale; complici anche le carenze sui materiali e i difetti strutturali di costruzione, alcuni dei quali noti ma taciuti. Il reattore n° 4 dapprima liberò vapore surriscaldato poi all’1.23 esplose a causa di un maldestro tentativo di spegnimento istantaneo, proiettando verso l’alto la copertura in acciaio e cemento pesante oltre mille tonnellate, e rimanendo col nocciolo di fusione scoperto. E fu l’inferno, sotto forma di un incendio apocalittico e di una gigantesca e minacciosa nuvola radioattiva.
Le reticenze del Cremlino e l’emergenza affrontata negando la realtà
Le autorità sovietiche vennero prese completamente di sorpresa dall’emergenza, e agirono secondo consolidata tradizione: ignorando, tacendo, negando, operando senza ritegno e senza rispetto delle vite umane. I vigili del fuoco erano su posto già all’1.30 senza attrezzature e senza protezioni specifiche come se si trattasse di un intervento di routine: spensero eroicamente gli incendi rimanendo però sottoposti a una violenta contaminazione, a totale insaputa di ciò che era accaduto, ma niente potevano fare per il nocciolo, già parzialmente disintegrato con l’esplosione che non era stata nucleare ma termochimica E allora Mosca mandò gli elicotteristi a “bombardare” l’area con sabbia e boro, condannando anche i piloti, operativi al centro della nuvola, alle radiazioni letali. Quindi ordinò un’evacuazione di massa da tutta la zona che interessò oltre 330.000 persone. L’Occidente venne a conoscenza della catastrofe solo perché la Svezia aveva registrato un preoccupante innalzamento delle radiazioni nucleari nell’aria. Erano già trascorsi due giorni dall’esplosione e il Cremlino si ostinava ancora a smentire l’ipotesi dell’incidente. Solo la sera del 28 l’Agenzia Tass diramerà una nota parlando neutramente di “disattivazione” di un reattore e di assistenza alla popolazione. A Cernobyl i valori di radioattività erano talmente alti, quasi 5.000 volte rispetto al limite di tolleranza, che in un primo tempo si pensò che i rilevatori fossero guasti. Sull’Europa del nord la nube radioattiva sarebbe stata assai più eloquente delle comunicazioni sovietiche, scarne e reticenti nonostante la fiducia nutrita dagli occidentali nei confronti del Mikhail Gorbačëv e della sua politica di glasnost. Ma di trasparenza ce ne fu davvero poca. I frutti malati di Cernobyl arriveranno fino in Francia, in Gran Bretagna, e in Italia, scatenando diverse psicosi come sul consumo di ortaggi a foglia larga e prodotti lattiero-caseari.
La città di Prypjat evacuata dopo 36 ore con mille autobus
Nessuno aveva detto agli operai che stavano costruendo le centrali n° 5 e n° 6 di non recarsi al lavoro quel 26 aprile, e anche loro vennero condannati alla contaminazione. La città di Prypjat sarà evacuata all’improvviso e con preavviso pressoché nullo il 27 aprile, con un esodo affidato a oltre mille autobus. Alla popolazione era stato detto che si trattava di una misura precauzionale e provvisoria. Tutti lasciarono tutto e Prypjat diventerà una città fantasma, una cartolina della catastrofe illustrata da oggetti di vita quotidiana abbandonati, dove non sarebbe mai tornato nessuno. Una volta domato il nocciolo incandescente si riuscì disperatamente a coprire del reattore n° 4 con un sarcofago di acciaio e cemento armato che diede non pochi problemi strutturali, con cedimenti, infiltrazioni e contaminazioni. Non era mai stato considerato permanente, tant’è che si realizzerà una nuova struttura di copertura nel 2016 costata oltre un miliardo di dollari.
Gli effetti, le conseguenze in Europa e la definitiva chiusura
Almeno quattrocentomila persone, ma forse sono persino il doppio, chiamate “liquidatori”, vennero incaricate del recupero e della decontaminazione dell’area disastrata. Le prime vittime delle operazioni di soccorso furono i più coraggiosi che affrontarono le conseguenze dell’esplosione senza protezioni di alcun genere, e cercarono di limitarne le letali conseguenze, sacrificandosi pur sapendo che quella era una missione suicida. Dopo due settimane gli addetti della centrale, i vigili del fuoco e i piloti cominciarono a morire uno dopo l’altro, e così chi aveva maneggiato macerie, detriti e metalli (750.000 tonnellate). I dati ufficiali parlano di 65 morti e circa 4.000 deceduti per tumore e leucemie. Gli effetti dell’esposizione alle radiazioni hanno interessato circa cinque milioni di persone, ma con tutti i problemi nell’accertamento nel tempo del nesso causa-effetto di manifestazioni tumorali. Sull’onda emozionale di ciò che era accaduto a Cernobyl nel 1987 l’Italia, con referendum, rinunciò a dotarsi di impianti nucleari civili per la produzione di energia nucleare. Quanto agli altri reattori di Cernobyl, nel 1991 venne dismesso il numero 2 per le conseguenze di un incendio, il 30 novembre 1996 venne spento il n° 1 e venticinque anni fa ci fu la chiusura totale dell’impianto con il n° 3.