AGI - Un “ragazzino” e un “grassone” rivelarono al mondo l’inizio dell’era atomica. La prima bomba era stata chiamata in codice Little Boy, la seconda Fat Man: vennero sganciate il 6 agosto 1945 su Hiroshima e il 9 agosto su Nagasaki. Non ne occorse una terza, perché il Giappone che aveva rifiutato di capitolare sulle condizioni dell’ultimatum consegnato durante la Conferenza di Potsdam stavolta chinò il capo e si arrese. Quel duplice attacco doveva dimostrare la potenza distruttrice degli Stati Uniti e impedire lo stillicidio di soldati nei continui sbarchi con la tattica del “salto della rana” di isola in isola che aveva dimostrato solo l’irriducibilità nipponica a chiudere quella guerra.
Le vittime di Hiroshima e Nagasaki, incenerite dall’esplosione di un’arma apocalittica o uccise a distanza dalla radioattività, oscillano tra le centomila e le duecentomila, civili in schiacciante maggioranza. I problemi morali innescati da quella decisione e da quel gesto, che furono allo stesso tempo militari e politici, allora come oggi continuano a stendere la loro ombra sulla discussione su quanto la storia ha registrato. Si è trattato dell’unico utilizzo di ordigni nucleari in guerra. Allora li avevano solo gli Stati Uniti, oggi le nazioni con arsenale atomico sono nove – oltre agli Usa, la Russia già erede dell’Urss, Regno Unito, Francia, Cina, Pakistan, India, Corea del Nord e Israele – e altri hanno tentato di crearlo, come l’Iran.
Il B-29 Enola Gay sganciò la bomba Little Boy
Era la mattina del 6 agosto 1945 quando un B-29 Superfortezza volante, con un nome dipinto sulla fusoliera solo il giorno prima, si affacciò sulla città di Nagasaki. Il nome, entrato nella storia, era Enola Gay, la madre del colonnello Paul Warfield Tibbets Jr., 30 anni, pilota del quadrimotore in cui si trovavano il capitano copilota Robert A. Lewis, che aveva ceduto la cloche al superiore non senza celare il proprio malumore, l’addetto all’armamento della bomba e comandante della missione capitano William Parsons, il suo assistente sottotenente Morris Jeppson, il navigatore capitano Theodore Van Kirk, il bombardiere maggiore Thomas Ferebee, gli operatori radar e radio sergente Joe S. Stiborik e l’aviere scelto Richard Nelson, l’addetto alle contromisure radar tenente Jacob Beser, gli ingegneri di volo sergenti Wyatt Duzenbury e Robert Shumard, il mitragliere di coda sergente George Caron. La ricognizione aveva assicurato che le nubi dei giorni precedenti non coprivano più l’area urbana. Tutto era stato studiato a tavolino, tutti i calcoli fatti, rifatti e riverificati.
Alle 8.15 la pancia del B-29 si aprì lasciando precipitare verso terra un’unica bomba, con 60 chili di uranio 235. Anche Hiroshima era stata raggiunta dall’allarme aereo diramata dai radar giapponesi che avevano intercettato prima una grossa formazione di bombardieri americani ad alta quota, poi solo tre: Enola Gay, The Great Artiste e un terzo che solo dopo verrà macabramente chiamato Necessary Evil, col solo compito di scattare fotografie su quanto sarebbe accaduto. Questo particolare aveva frenato sull’invio massiccio di caccia intercettori, per risparmiare la preziosissima benzina di cui il Giappone scarseggiava.
Little Boy, come programmato, esplose a circa 600 metri dal suolo, con effetti tecnicamente equivalenti allo scoppio di 16.000 tonnellate di tritolo. In un attimo, in una luce accecante, vennero cancellate almeno settantamila vite e la quasi totalità di Hiroshima. Seguì un uragano atomico. Di alcuni civili restò solo la sagoma nera come fosse stata dipinta su un muro. Fu un’apocalisse, e non era un’iperbole. I risparmiati dalla morte immediata, vivranno in un inferno per il resto della loro vita segnata dalla contaminazione e dalle sofferenze per le quali non esisteva cura.
La Superfortezza doveva colpire Kokura e ripiegò sul bersaglio di riserva
Era stato stabilito che il 9 agosto il secondo ordigno, Fat Man, sarebbe stato sganciato sulla città di Kokura. Ma uno strato di nubi fece cambiare la rotta del B-29 dopo tre inutili giri per effettuare il puntamento e il corso della storia. Il carburante ancora nei serbatoi del quadrimotore che scintillava alla luce del sole consentiva di raggiungere l’obiettivo secondario, che era Nagasaki. Le sirene dell’allarme aereo erano risuonate quel mattino per 40 minuti, e alle 08.30 smisero. Quando poco prima delle 11 si materializzarono due sagome all’orizzonte gli osservatori radar giapponesi pensarono fossero semplici ricognitori. E poi c’erano nuvole anche su Nagasaki, difficile ipotizzare il bombardamento. Ma Fat Man non poteva essere riportato alla base, ed era escluso che nel caso di mancanza di benzina si potesse tentare una manovra di ammaraggio.
Il comandante Charles W. Sweeney, che ai suoi ordini aveva l’equipaggio del B-29 The Great Artiste, non ancora pronto nelle modifiche per quella missione e utilizzato come ricognitore da affiancamento, contravvenendo alle disposizioni ricevute accese allora la strumentazione radar e da essa pervenne l’indicazione dell’obiettivo. E così il B-29 chiamato Bockscar (ma anche Bock’s Car oppure Bocks Car) sganciò la bomba al plutonio (poco meno di sei chili e mezzo) che esplose a un’altezza di meno di mezzo chilometro dalla zona dove sorgevano le industrie belliche, a pochissimi chilometri (4,5 o 6) da Nagasaki, parzialmente protetta da alcune colline. Non abbastanza protetta da poter impedire circa ottantamila vittime tra morti all’istante e feriti contaminati. Il Bockscar dopo la missione riuscirà fortunosamente ad atterrare a Okinawa con i serbatoi praticamente a secco.
L’imperatore Hirohito alla radio annuncia la resa
Viene ritenuto che il duplice bombardamento atomico abbreviò la guerra e risparmiò agli americani la perdita di decine di migliaia di soldati. Altri ritengono che il Giappone, ormai stremato, stesse per chiedere all’Unione Sovietica di intercedere con gli Alleati per giungere a un armistizio. Ma due giorni dopo l’olocausto nucleare di Hiroshima Stalin aveva dichiarato guerra al Giappone per prendersi una parte di bottino sul fronte del Pacifico e quindi nessuna altra strada era praticabile se non la resa incondizionata. Che il Giappone dichiarò unilateralmente il 15 agosto con un discorso alla radio dell’imperatore Hirohito. Era la prima volta che i giapponesi udivano la voce di colui che ritenevano un dio in terra, e quella voce valeva molto più di quella dei militari che avevano voluto una guerra chiusa nel disastro dei due funghi atomici.