AGI - "Ogni volta che pensate di non farcela, riflettete su quando un giovane Bruno veniva scartato ai provini perché basso e troppo gracilino. Quando sembrava che la salita fosse troppo ripida per riuscire ad affrontarla. Eppure quel bambino ce l'ha fatta, aprendo il cassetto dei sogni e maneggiandoli con cura".
Il giovane Bruno è Bruno Conti, idolo della tifoseria giallorossa degli anni '80, miglior calciatore ai mondiali di Spagna '82 vinti dall'Italia dove fu soprannominato 'MaraZico' (crasi formata dai nomi dei due calciatori più forti del mondo in attività, Maradona e Zico) e primo giocatore-tifoso della Roma ad aver vinto Coppa del Mondo e scudetto (24 anni dopo sarebbe toccato anche a un altro questo onore, un certo Francesco Totti).
Esattamente quarant'anni dopo quello storico successo planetario al Mundial '82, nell'anno in cui l'Italia è nuovamente in lutto calcistico per l'eliminazione nella fase di qualificazione ai Mondiali, Bruno Conti pubblica la sua autobiografia.
Sulla scia del successo del libro di Francesco Totti ('Un Capitano', scritto con Paolo Condò ed edito da Rizzoli), il secondo giocatore più vincente e più amato dai tifosi giallorossi manda in stampa 'Un gioco da ragazzi - Dalla Roma alla Nazionale, il mio calcio di una volta' scritto con Giammarco Menga (Edizioni Rizzoli - pagg. 208; Euro 17), giovane giornalista abruzzese nato l'anno prima del ritiro di Conti dal calcio giocato.
Una biografia che racconta un'epoca lontana di cui serbiamo un ricordo affettuoso e, ognuno a modo suo, privato: i racconti dell'ex numero 7 giallorosso sono associati se non al bianco e nero, di certo a colori sbiaditi di un tempo passato. Un'epoca in cui i valori erano più importanti di ogni altra cosa - soldi, successo, fama - quando il calcio era ancora "un gioco da ragazzi".
Nel libro, quindi, Conti ricorda la sua infanzia a Nettuno, cittadina di mare vicino Roma: famiglia povera con padre muratore tifosissimo della Roma e madre casalinga, quinto di sette fratelli (quattro femmine e tre maschi che dormivano in due letti), talento precoce nel baseball - sport importato proprio nella cittadina dagli americani dopo lo sbarco di Anzio - e di calcio malgrado avesse nel fisico, con una bassa statura e corpo piuttosto gracile, un limite evidente. Come per Francesco Totti, che anni dopo erediterà il titolo di giocatore-simbolo della Roma, anche per Conti la figura paterna è stata decisiva grazie a un rifiuto: se il papà di Totti rifiutò l'offerta del Milan per portarsi al nord il talentuoso figliolo, nel caso di Conti fu il padre Andrea a rifiutare l'offerta degli americani di Santa Monica di portarlo oltreoceano per giocare nel campionato di baseball stelle e strisce.
Racconta Conti: "In cucina c'è silenzio assoluto. Poi, dopo una manciata di minuti, mio padre si decide: 'Mio figlio è piccolo e da Nettuno non si muove'. Se lui avesse detto sì in quella tiepida serata di agosto, non sarei mai diventato Bruno Conti".
Nel libro, in cui c'è una prefazione di Francesco Totti (che ricorda quando, il 23 maggio 1991, nella partita di addio di Conti lui era uno dei fieri raccattapalle che ammiravano il loro idolo che appendeva gli scarpini al chiodo a 36 anni), il Brunetto nazionale ripercorre la sua vicenda sportiva: dagli esordi nel Nettuno Calcio e poi nell'Anzio ai provini andati male con Sambenedettese, Bologna e Roma (secondo Helenio Herrera non aveva il fisico adatto per fare il calciatore, troppo "gracilino"), l'arrivo nella Roma di Niels Liedholm, i due anni in prestito al Genoa di Gigi Simoni, poi i trionfi con tante coppe Italia, il campionato del mondo con la nazionale di Bearzot (premiato miglior giocatore del mondiale 1982), lo scudetto con la Roma, il secondo della storia del club, la finale di Coppa dei Campioni e il maledetto rigore sbagliato.
Poi il rapporto difficile con Sven Goran Erickson e quello impossibile - analogia di quello tra Totti e Spalletti - con Ottavio Bianchi che di fatto lo spinse a smettere di giocare.
Nel libro, che rivela anche l'amicizia antica nata sul campo di calcetto a Lavinio con Agostino Di Bartolomei (in una partita contro un altro ragazzino destinato a fare carriera, Bruno Giordano), Bruno Conti rivela di essere stato un tipo 'alla Cassano', ossia uno abituato a fare scherzi a ripetizione a tutti.
Alcuni innocenti e altri terribili, come quello del fantasma che terrorizzò il povero Carletto Ancelotti.
In circa 200 pagine si susseguono aneddoti inediti con gli altri protagonisti dell'epoca - da Liedholm, superstizioso, che allineava le scarpe dei calciatori nello spogliatoio, a Pruzzo che guidava come un pazzo a Tardelli che non dormiva durante il Mondiale '82 ed era soprannominato il 'coyote' - e ricordi di partite memorabili.
Sono spiragli che svelano al lettore l'epoca in cui il calcio era ancora "un gioco da ragazzi", fatto di fatica ed entusiasmo, polvere e festeggiamenti a base di fettuccine al ragù, quelle memorabili della mamma Secondina o dell'adorata moglie Laura. Ed è forse questo il merito maggiore del libro: non tanto rivelare retroscena e raccontare episodi inediti, quando riportare il lettore ad atmosfere e sensazioni oggi dimenticate.
E il merito è tutto di Bruno Conti che è stato capace di trasmetterle al suo giovane 'complice' che in quegli anni non era ancora nato e che lo ha aiutato a redigere 'Un gioco da ragazzi'.