Lui 19 mesi, la sorella appena quattro. Sono le vittime di una tragedia difficile da decifrare che ha visto la loro madre ucciderli per le scale del carcere di Rebibbia, spiegando poi: “Adesso sono in Paradiso”. Per la donna, A. S., 33enne di origine tedesca, l'accusa è ora di duplice omicidio
Un dramma che riporta l’attenzione sulla difficile condizione dei bambini costretti a vivere tra le mura di un istituto di pena dove le madri scontano le loro condanne. E che porta il Garante Nazionale dei detenuti a parlare di “responsabilità collettive”.
Sessanta piccoli detenuti
Cinquantadue mamme detenute e sessantadue figli al seguito: al 31 agosto era questo il numero di donne, con relativa prole, presenti nei quindici istituti penitenziari italiani (Reggio Calabria, Bologna, Roma, Bollate, Brescia, Milano, Torino, Foggia, Lecce, Sassari, Messina, Firenze, Perugia, Venezia e Lauro). Stando al Dap, ventisette sono le detenute di nazionalità italiana (con 33 figli al seguito), e 25 quelle straniere (con 29 figli). Nella sezione femminile di Rebibbia alla fine di agosto erano rinchiuse 8 italiane (con 10 figli) e 5 straniere (con 6 bambini).
Nessuno è innocente
"La responsabilità è responsabilità collettiva: della carenza di strutture di casa famiglia protette, che esistono in numero limitatissimo e che dovrebbero costituire la soluzione prioritaria, delle comunità locali che spesso non gradiscono le presenze delle detenute madri nel loro territorio, della pretesa volontà di anteporre le necessarie esigenze di giustizia" alle "tutele" di donne detenute e dei loro figli, e "di un’opinione pubblica che volge il suo sguardo al carcere solo in occasione di tragedie e non anche ai molti aspetti di cura e tutela che vi si svolgono ogni giorno". Lo scrive in una nota il Garante nazionale dei detenuti a commento della vicenda.
Una legge che deve ancora essere applicata
Il contesto in cui va collocato l'episodio, rileva il Garante, "è quello della difficoltà applicativa di una legge che ha ormai sette anni e che stenta a essere applicata nei suoi aspetti più significativi, rischiando di fare retrocedere il suo significato al mero miglioramento di ciò che già avveniva prima della sua adozione", ma anche quello "dell’incapacità a trovare il punto di equilibrio tra la difesa del diritto alla relazione materna, che porta il nostro ordinamento alla tutela almeno nei primi tre anni di vita, e l’assoluta priorità dell’esigenza di positive capacità evolutive e cognitive di un bambino nei suoi primi anni di vita".
"Difficile trovare l’equilibrio - afferma - troppo semplici le soluzioni adottate, che in molti casi, proprio ad eccezione di quello in cui si è sviluppata la tragedia, determinano situazioni di intollerabilità che non tutelano né l’una né l’altra esigenza".