AGI - Quando la nostalgia incontra l’ironia, in Puglia scatta la scintilla. Gli Oesais – alias Antonio Stornaiolo ed Emilio Solfrizzi – sono tornati sul palco nella loro veste più iconica e hanno trasformato la Fiera del Levante di Bari in una macchina del tempo: quattro serate di sold out, dal 4 all’8 luglio, con quasi 20 mila presenze.
Una reunion attesissima, che ha riportato in scena un pezzo d’anima pugliese nato trent’anni fa dal genio di Gennaro Nunziante, autore dei testi più iconici della comicità italiana e regista dei successi di Checco Zalone. Gli Oesais non sono solo una parodia degli Oasis. Sono una lente d’ingrandimento sulla vita quotidiana, sulle piccole e grandi tragicommedie del Sud.
Dal britpop al dialetto
Il britpop diventa dialetto molfettese, e le canzoni – famose in tutto il mondo – si caricano di una potenza nuova, perché raccontano di noi. Del ragazzo innamorato che, con rispetto e pazienza, ogni giorno guida da Molfetta a Bitonto per vedere “Na mnenna d’Vtount” (Wonderwall) che non osa nemmeno sfiorare. Di chi si ritrova, una mattina, a scendere di casa e non trovare più l’amata “127 Abarth” (Champagne Supernova), rubata con dentro le tendine parasole, la calamita della Madonna e l’impianto per le cassette.
Raccontano il sogno di una vita in due, spezzato da un mutuo a trent’anni firmato troppo in fretta e da una fidanzata che scappa al primo dubbio: è il destino comico e amaro di “U mutue a 30 anne” (Stop Crying Your Heart Out). Ma raccontano anche l’amore per il mare, per la propria terra, per l’accoglienza semplice e disarmante di una Puglia che si immagina turistica e ironica, con mamme londinesi e papà di Barletta: “Sim turaist inglais” (All Around the World).
Un controconcerto pieno di identità
E mentre gli Oasis veri infiammavano il Principality Stadium di Cardiff per la loro attesissima reunion europea, a Bari gli Oesais pugliesi rispondevano con chitarre, dialetto e identità, in un paradossale controcanto che sa di destino e affetto collettivo.
E poi c’è il passato, che ci tiene per mano: i pomeriggi davanti alle tv locali, le risate seriali, il tormentone quotidiano, la leggerezza come cifra stilistica e come missione. In questo ritorno, gli Oesais hanno messo in scena un saluto, un abbraccio, una festa di compleanno collettiva per quei bambini cresciuti che oggi, senza vergogna, cantano ancora a squarciagola in dialetto, ridendo e piangendo insieme.
Intervista ad Antonio Stornaiolo
Partiamo dai numeri: tutte le date sold out, vi rendete conto?
"Noi siamo felicissimi. Sono stati quattro giorni che non dimenticheremo. Abbiamo fatto circa 20 mila persone. Ci sono intere generazioni che ci seguono, è pazzesco. Ci rendiamo conto di un’altra cosa: che queste cose, normalmente, accadono nel mondo della musica. È così ovunque. Ci sono gruppi e attori cento volte più seguiti di noi. Ma spesso si muovono in una bolla mondiale, europea, o almeno italiana. Il 'dramma' è che noi viviamo le stesse esperienze... nella bolla nostra, quella pugliese. Noi, da un certo punto in poi, siamo stati famosi come Michael Jackson – dicevamo trent’anni fa, con molta modestia ma con cognizione di causa. Da Foggia a Lecce, per intenderci".
Una fama locale, ma profonda.
"Esatto. Noi abbiamo fatto tutto questo in una bolla che ha visto ‘Toti e Tata’ solo in Puglia, attraverso la tv territoriale dell’epoca. Ed è questo il fatto scioccante: è un fenomeno locale, sì, ma che ha superato lo schermo, le generazioni, le classi sociali. Ha superato tutto. Oggi abbiamo un rapporto con il pubblico che non è neanche di ‘adorazione’. È proprio amicale, familiare. Hai visto ieri sera? Io alzo il telefonino e loro lo alzano. Giochiamo a fare il concerto. È una presa in giro, certo, ma è anche un gioco condiviso. Emilio chiama una canzone, la cantiamo tutti insieme, all’unisono. Le risate, la spontaneità nostra e del pubblico... è un rapporto meraviglioso che dura da quarant’anni”.
E ora, che avete deciso di fare questi quattro concerti-evento, che significato ha?
"Abbiamo capito che è finito un periodo. Noi abbiamo un’età. Questo mestiere si può fare fino a novant’anni, sia chiaro. Ma quel modo lì, fatto di costumi, di personaggi, aveva senso adesso: non è un modo per salutare i fans, un addio, ma per dire ‘grazie per esserci stati’. Non lo rifaremo più. Forse faremo delle altre date a Ostuni e forse a Milano, poi, passato il 2025, non ce n’è più per nessuno. Noi non ci teniamo ad essere dei miti. Anche perché siamo consapevoli dei livelli: sappiamo benissimo cosa rappresentiamo, ma qui, un saluto dovevamo darlo a quei bambini cresciuti, che allora erano ragazzini. Voi ci volete bene perché quell’epoca era meravigliosa: pomeriggi senza l’ansia del telefonino o di TikTok, ti mettevi davanti alla tv alle 14, mangiavi o avevi appena mangiato e ti godevi 24 minuti di risate. E ogni giorno. Diventava seriale. Il tormentone era quotidiano”.
Dietro tutto questo il genio di Gennaro Nunziante…
“Il primo a essere ringraziato dev’essere Gennaro Nunziante. C’è una genesi in tutto quello che abbiamo fatto, che appartiene esclusivamente a lui. Poi siamo arrivati noi e abbiamo parlato quel linguaggio, ma il vocabolario era suo. Gennaro ce l’ha dato in mano e noi lo abbiamo usato, con le parole giuste. Le canzoni sono tutte sue e sono meravigliose. Scrisse tutto questo per prendere in giro i reality, quando ancora i reality non erano nemmeno usciti”.
Le tue preferite?
“Sono innamoratissimo di ‘Ianna’ e ‘Nu ngi’amà spusaj’. Abbiamo grandissimo rispetto per le canzoni degli Oasis. Loro hanno inventato un genere: il britpop. Chi inventa un genere ha davvero qualcosa da dire. Hanno venduto 10 milioni di biglietti, è ridicolo anche solo paragonare i nostri numeri. Se negli anni '60 c'erano i Beatles, che causarono uno tsunami nella musica, nel '90 c'erano gli Oasis. Quando Gennaro ha pensato a chi potesse ispirarsi, ha pensato ai migliori in campo e noi ci abbiamo giocato sopra. Poi la cosa ci è scoppiata in mano: dovevano essere solo personaggi della nostra galleria, niente di più. Invece, sono diventati quello che sono. Parlano una lingua che non si capisce, ma tutti sono lì ad ascoltare".
Dopo trent'anni, cosa non è cambiato? "Le risate. Come due cretini continuiamo a ridere quando li facciamo. A ridere tra noi quando li pensiamo, anche durante le prove. La leggerezza, soprattutto. Ci riconosciamo tanta professionalità, ma la cifra vera è la leggerezza. Arriviamo sul palco senza prenderci troppo sul serio. Siamo spettatori di noi stessi a giocare, a scherzare, a ridere. Secondo punto: voi, il pubblico. Non vi rendete conto di cosa siete. Vedere da sopra la gente ridere in quel modo e cantare cosi', non ha prezzo. Il terzo punto, invece, è che l'abbiamo fatto perchè era il momento. Ora o mai più".
E il rapporto con Emilio? "E' mio fratello. In questi giorni, anche con la scusa del concerto, ci siamo rivisti e ci siamo voluti bene come sempre. Festeggiamo 50 anni di amicizia: ci siamo conosciuti nel 1975 come due scolaretti al liceo classico 'Cirillo' di Bari. Mezzo secolo, capisci? Non si aggiunge altro. E' un vincolo vero, e si vede. Questa occasione, poi, ci ha dato l'opportunità di ritornare ad avere un rapporto artistico con Gennaro, che è nostro amico da 30 anni, ed è sempre un valore aggiunto".