Oggi il paese di Lentigone di Brescello in Emilia è stato evacuato per il maltempo, in seguito all'esondazione dell'Enza.
Certe cose sono scritte nel sangue, oppure nell’acqua. Brescello di suo è sanguigna, e al tempo stesso dominata dall’acqua. Non potrebbe essere altrimenti per una cittadina rifondata da Matilde marchesa di Toscana per fare gran dispetto al di lei cugino, l’Imperatore di Germania. Il fatto è che quelle fondamenta, oltre che nella perfidia femminile, affondano anche nelle insicure terre della bassa padana, impregnate d’acqua fino alle midolla. E la circostanza le rende per natura inaffidabili, se non addirittura infingarde.
Terra e fango di sotto, acqua di lato (a nord, a poche centinaia di metri), fuoco della perfidia di sopra: ecco la Brescello in cui i quattro elementi di Empedocle si uniscono pericolosamente quando dall’aria cade l’acqua che inzuppa la terra e scatena il fuoco che cova nel sangue degli uomini. Succede sempre, a Brescello, fin dagli albori della Repubblica, da quando cioè in città furono ambientati i duelli di Don Camillo e Peppone, che si fronteggiavano dal municipio e dalla chiesa di santa Maria Nascente, trincee posizionate dal Destino l’una di fronte all’altra, sulla piazza principale.
Diceva Giovanni Guareschi: "Per me, il Po comincia a Piacenza". Lui lo osservava guardingo, con gli occhi sgranati del contadino, e lo chiamava “Il Grande Fiume”; nemmeno fosse il Mississippi. Oggi il Grande Fiume attraversa queste terre spesso decaduto e trascurato, pronto a mugghiare e a portarsi via pezzi di argine, spallette, piloni di ponti. È successo a Piacenza, anni fa, ma anche pochi mesi fa non lontano da Parma.
Parcheggiato fuori l’inevitabile museo di Don Camillo e Peppone un carro armato Sherman, a memoria di quello che il primo teneva pronto perché non si sa mai, ed infatti il secondo in soffitta aveva i mitra. Set naturale dei cinque film tratti dai libri di Guareschi, Brescello, quelli con Gino Cervi e Fernandel. (Il sesto non fu completato perché Fernandel venne a mancare. Provarono a rifarlo un anno dopo con Gastone Moschin, ma non fu la stessa cosa. Infatti non lo avevano nemmeno girato a Brescello).
Non fu la stessa cosa anche perché, di fronte alle esigenze di Guareschi, Brescello metteva a disposizione tutta se stessa, anima e corpo. Tanto da far da set naturale quando, nel 1951, il Grande Fiume ruppe gli argini con rabbia sfrenata, e scatenò quella che ancora adesso ci ricordiamo come l’Alluvione del Polesine. Guareschi colse la palla al balzo, e chiamò l’operatore, il Nasi, a fare le riprese dal vivo dell’acqua che aveva rotto gli argini anche nella Bassa reggiana, degli sfollati costretti a stare in piedi a centinaia sugli isolotti melmosi che emergevano incerti dai campi invasi dall’acqua, della stessa piazza di Brescello dove ci si spostava in barchino perché la strada era un metro più giù.
Poi, siccome era anche lui un sanguigno e un generoso, ci si mise di persona lo stesso Guareschi, complici gli stessi baffi, a far da controfigura a Gino Cervi. Ed il film (“Il ritorno di Don Camillo”) uscì nelle sale poco dopo unendo il racconto surreale delle storie della Bassa con le immagini reali della sciagura. Considerando anche l’epoca, ed il fatto che in quel film i morti trattengono il respiro per far dispetto ai preti non graditi ed i vivi vedono l’anima al diavolo per scommessa, “Il ritorno di Don Camillo” altro non è se non un piccolo capolavoro di Neorealismo Magico, come nemmeno Salman Rushdie avrebbe osato immaginarlo.
Un capolavoro fin nelle battute finali, paradigmatiche di un Paese diviso e pronto alla scazzottata, ma mai incattivito. Un Paese che aveva ancora un’etica del lavoro, pronto a cedere alle tentazioni della rivalsa e della rivincita, ma mai desideroso di schiacciare l’avversario, quanto semmai di impartirgli una bella lezione. Un paese dove Peppone fa il suo dovere di sindaco fino in fondo, mettendosi a gestire l’emergenza e gli aiuti, e Don Camillo il suo di padre spirituale. E la mattina della domenica monta sul campanile i megafoni per farsi sentire da quella gente della Bassa che, intirizzita su un isolotto di fango, smoccola non per negare Dio (lo scrive Guareschi), ma per fargli dispetto in un momento di rabbia. E quindi non commette peccato, perché il Crocifisso parlante non se ne adonta.
A questa gente costretta a fuggire di casa – nel ’51 come oggi – Don Camillo si rivolge da un megafono. Vale la pena di rileggere cosa dice a Brescello, e non solo: “Fratelli, sono addolorato di non poter celebrare l’ufficio divino con voi, ma sono vicino a voi per elevare una preghiera verso l’alto dei cieli. Non è la prima volta che il Fiume invade le nostre case. Un giorno però le acque si ritireranno ed il sole tornerà a splendere, e allora ci ricorderemo della fratellanza che ci ha unito in queste ore terribili e con la tenacia che Dio ci ha dato ricominceremo a lottare perché il sole sia più splendente, i fiori più belli e la miseria sparisca dalle nostre città e dai nostri villaggi. Dimenticheremo le discordie e quando avremo voglia di morte cercheremo di sorridere, così tutto sarà più facile ed il nostro Paese diverrà un piccolo paradiso in Terra. Andate, io resto qui per salutare il primo sole e portare a voi, lontano, con la voce delle campagne, il lieto annuncio del risveglio. Che Iddio vi accompagni. E così sia”.
Un’altra Italia.