“Mi chiamo Sun Wen-Long, sono nato a Brescia nel 1988. I miei genitori, entrambi cinesi, hanno gestito il ristorante di famiglia fino alla pensione. Da piccolo mi sono trasferito a Bologna, dove c’erano i miei nonni. E dove ho preso l’accento (bolognese)”. Ride. Parla al telefono con timidezza. Racconta la sua storia. Il nonno, un pellettiere originario della provincia del Zhejiang, da quando arriva in Italia, nel 1957, prende un nome italiano: Giuseppe. In quel periodo è illegale uscire dalla Cina e Giuseppe passa un anno a Hong Kong prima di poter partire. Segue le orme dello zio Umberto (anche questo è il nome che ha assunto in Italia), giunto ancor prima a Venezia, nella metà degli anni ’30. Con la moglie fanno crescere qui i 5 figli, 4 maschi e 1 femmina; il padre di Sun arriva solo nel 1980.
Dalla pelletteria alla ristorazione
In quei tempi aprire un ristorante era un traguardo. I nonni hanno vissuto in Italia 40 anni, tornando in Cina una sola volta. Sono sepolti qui, dove hanno messo radici. L’Italia è casa per la famiglia di Sun Wen-Long. Laureato in ingegneria informatica, oggi questo ventinovenne lavora nella divisione e-commerce di Intai, società cinese dell’It. Nel 2003 pubblicò una lettera accorata ai genitori sul sito di Associna, l’associazione che si occupa delle seconde generazioni italo-cinesi. Era un appello a integrarsi di più nella società italiana.
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“Se mio nonno fosse rimasto in Cina, forse non sarei neanche nato e non avrei tutto quello che ho adesso”, chiosava. “Forse la mia famiglia non avrebbe avuto le stesse possibilità economiche e io non avrei potuto studiare. Amo la mia famiglia, amo la mia casa e il posto dove vivo”. Il testo fu ripreso dal Corriere della Sera, aprendo un dibattito all’interno della comunità cinese, dove esiste uno scarto tra la prima generazione, “emotiva e attaccata ai soldi e alla famiglia”, e la seconda generazione di emigrati, “che ha studiato ed è più riflessiva”.
Il testo di Sun Wen-Long rispondeva alle discriminazioni nei loro confronti, riemerse con forte impatto emotivo dopo la messa in onda di alcuni servizi televisivi sui canali Mediaset e Rai - talmente sgraditi ai cinesi da innescare iniziative di boicottaggio sui prodotti italiani. Per Sun Wen-Long, la risposta migliore alle difficoltà a integrarsi, era lanciare un appello a prendersi più cura della propria casa, a comportarsi “a tutti gli effetti come cittadini di questo Paese”.
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Giovani, bilingue e globe-trotter: come sono gli italo-cinesi di oggi
Sono passati poco più di tre anni da quella lettera. E alcune cose sono cambiate. Sia nella vita di Sun sia nel rapporto tra i cinesi e la società italiana, che dà segnali di evoluzione. Giovani, bilingue, innovatori e globe-trotter: è il ritratto dei cinesi di seconda generazione. Perfettamente inseriti nel sistema economico e sociale italiano, colti e flessibili, creano imprese innovative e sono corteggiati dai gruppi cinesi che hanno acquisito le nostre aziende, dove fungono da perfetti mediatori culturali. A Milano sono più evoluti, a Roma prevale il vecchio modello “tutto a mille lire”. Ma in ogni caso il futuro dell’integrazione della quarta comunità straniera in Italia passa attraverso di loro. A dirlo è Marco Wong, presidente onorario di Associna, in una intervista ad AgiChina. Sun Wen-Long è esponente di questa nuova generazione.
“La mia vita è cambiata da quando lavoro. Cercavano risorse con almeno 7 anni di esperienza nell’ e-commerce, ma hanno scelto me per il background culturale. Sono bilingue anche se il cinese non lo parlo benissimo. In casa, da piccolo, trascorrevo buona parte del mio tempo con mia sorella maggiore, e con lei si parlava solo italiano. I miei erano sempre al ristorante, li vedevo poco: un’ora al giorno. A scuola mi sentivo italiano al pari dei miei compagni, soprattutto a Bologna che è una città aperta. E così non essere madrelingua è oggi il mio handicap. Ma è chiaro che grazie alla mia doppia identità culturale, in azienda il mio ruolo è mettere in contatto i fornitori italiani con la piattaforma in Cina. Devo far dialogare anche i due software, dunque oltre a essere un informatico sono un mediatore culturale: traduco e interpreto problematiche”.
“Lavorando qui ho imparato a essere paziente. Spiegare ai cinesi la nostra attitudine al lavoro non è semplice, ci sono cose che proprio non capiscono di noi. Un’azienda di 60 persone, che in Cina sarebbe considerata piccola, ci mette una settimana per approvare una lettera. Gli iter burocratici italiani risultano ai loro occhi incomprensibili, in Cina i passaggi sono molto più veloci”.
La difficoltà di tornare a casa. Che non è più casa
Sun Wen-Long in tutta la sua vita è tornato in Cina 5 volte, in vacanza. “La prima volta che ho vissuto a Pechino è stato per uno stage di tre mesi. Dopo la laurea, come altri giovani italiani, ho avuto un momento di sconforto. Mio padre voleva che trovassi lavoro vicino a Bologna, ma ho sentito la necessità di fuggire dall’Italia. La Cina viaggia a velocità supersonica, non puoi pensare di abitarci a lungo anche perché la qualità della vita non è il massimo. Qui mi sveglio sotto un bel cielo azzurro, a Pechino il cielo è plumbeo e l’aria malsana. Lì ho avuto un cultural shock al contrario: mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Le relazioni tra colleghi sono diverse rispetto a noi, c’è molto rispetto per la gerarchia”.
“Sono tornato e ho trovato lavoro a Milano. Lavorare per un’azienda cinese significa far carriera più velocemente. Il mio capo è una donna di 33 anni, è entrata in azienda 10 anni fa come assistente del Ceo e oggi ha raggiunto i vertici. In Italia invece siamo fermi nei ruoli, le quote sono bloccate a livello dirigenziale. Ma la Cina è un ritorno alle origini, non un punto fisso. Qui ho la mia famiglia. Qui è casa. Non escludo di tornarci in futuro, ma sarebbe una scelta motivata dal desiderio di fare carriera più in fretta”.
Prato, il fulcro delle tensioni
Quando Sun Wen-Long tre anni fa scrisse la lettera aperta alla generazione dei suoi genitori, stava vivendo un periodo di rancori, denso di pensieri negativi sulla comunità cinese. “Erano settimane che le aziende cinesi, soprattutto a Prato nel settore tessile, subivano controlli a tappeto. E i connazionali si stavano fomentando contro le autorità”.
Prato resta un problema ancora oggi: “I miei amici lì rimarcano che serve un aiuto reciproco da ambo le parti. Ad esempio mancano gli alloggi privati, gli operati vivono nei locali in cui lavorano: dal dopoguerra a oggi, la città di Prato è stata costruita per produrre, non per accogliere unità abitative. L’aumento dei controlli da parte della guardia di finanza non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Lì c’è anche problema di sicurezza pubblica, scippi in pieno giorno. I cinesi ne soffrono”.
E poi non è vero che i cinesi evadono le tasse. “Associna ha condotto uno studio analizzando le statistiche ufficiali, ed è emerso che il numero degli evasori cinesi è equivalente a quello riferito ai commercianti italiani”. Secondo i dati delle Entrate, nel 2015, 92 mila contribuenti cinesi hanno versato quasi 250 milioni di euro di Irpef.