Comunicare o divulgare? Questo è il problema
Minichiello / AGF
Il futuro della narrazione scientifica passa attraverso le due figure del divulgatore e comunicatore. Apparentemente sinonimi, l’atto di divulgare e comunicare nascondono, però, profonde differenze che sono difficili da cogliere. Conoscerle significa migliorare le proprie capacità di narrazione ma soprattutto capire meglio le (vere) qualità degli altri.
Come recentemente ricordato dalla ghostwriter Marzia Tomasin nel podcast dell'Osservatorio di StoryTelling dell'Università di Pavia, narrazione e scienza sono sempre andate di pari passo. La prima ha bisogno delle conoscenze e delle scoperte della scienza per trovare nuovi spunti e nuovi idee di racconti, la seconda, invece, ha bisogno di nuovi codici linguistici per essere spiegata al grande pubblico. La narrazione (o letteratura) altro non è che il bisogno di raccontare una storia, la scienza altro non è che lo strumento attraverso cui l’essere umano cerca risposte alle sue infinite domande.
Il problema è che la scienza ha sempre avuto bisogno di grandi narratori per uscire dagli schemi rigidi del pensiero scientifico. Il primo grande narratore fu proprio uno dei fondatori del suo pensiero: Galileo Galilei. Ma oltre a lui, anche un altro grande scienziato è diventato famoso grazie alle sue capacità narrative e comunicative: Charles Darwin. Infatti, forse pochi ricordano che il grande biologo quando dovette scegliere come pubblicare e far conoscere al mondo la sua rivoluzionaria teoria sull’evoluzione umana, non scelse il classico articolo scientifico, ma la prima forma primordiale di libro di divulgazione scientifica. Una lunga monografia, senza note con un solo diagramma al suo interno. Sappiamo tutti l’impatto mediatico che ebbe questa nuova forma di comunicazione sul pensiero dell’uomo comune.
Da allora decine e decine di ricercatori hanno capito che per far espandere le loro teorie fuori dai confini (alcune volte inaccessibili) della scienza bisognava usare la narrativa. Uno degli scienziati più famosi che ha usato e usa tutt’ora questa forma di comunicazione per spiegare le sue ricerche è Giacomo Rizzolatti, che ha spiegato a tutto il mondo cosa sono questi fantastici neuroni a specchio.
Un grande esperto di questo settore è sicuramente Telmo Pievani dell’Università di Padova che, in una recente intervista, ha spiegato che narrare la scienza è fondamentalmente un atto di umiltà e di profonda intelligenza, perché spostarsi da un piano di descrizione del metodo scientifico (articoli su riviste specializzate) a articoli su giornali o quotidiani nazionali, non significa snobbare il proprio lettore perché “tanto non può capire”, anzi, è un atto molto più difficile per lo scienziato. Significa usare nuovi codici linguistici per spiegare cose che prima invece erano facilmente racchiuse in formule o concetti scientifici, andando a pescare da altri campi del sapere o della letteratura o della storia per fare in modo che tutti capiscano il senso, senza perdere quello originale.
Un’altra strategia – molto usata da Pievani nei suoi libri - è il non raccontare la scienza solo sulla base dei suoi prodotti, ma partire dalla genesi che ha condotto la mente dello scienziato a coniare quella particolare teoria o risultato. Questo renderà il racconto molto più divulgativo, semplice, lineare, accessibile a tutti e terribilmente umano, con le sue inevitabili serendipità.
Questi concetti sono ormai da molti anni impregnati nella cultura scientifica e non a caso sono nate molte collane, nelle più prestigiose case editrici, che sono dedicate solo a raccontare la scienza per creare quella figura chiamata: Divulgatore Scientifico. In Italia la figura che più di tutte incarna le capacità dialettiche del divulgatore è un famoso giornalista che tutti noi conosciamo: Piero Angela, che ha inventato un nuovo modo di narrare e divulgare scienza in maniera olistica.
Angela è riuscito nel suo scopo non solo grazie alle sue capacità dialettiche ma anche grazie alla forza attrattiva della grafica tridimensionale dei video che ha permesso a tutti noi spettatori (esperti o meno) di capire concetti e teorie complicate, seguendo la semplicità delle animazioni. Ma ora il mondo è cambiato e anche la narrazione della scienza deve mutare di conseguenza.
Il web, i social network sono pieni di narratori e divulgatori della scienza. Gli scaffali sono pieni di libri che spiegano benissimo tutto quello che c’è da sapere su settori nevralgici come la biologia, sociologia, chimica, antropologia, evoluzionismo, neuroscienze, bioingegneria, tumori, alimentazione, marketing. Il mondo ha bisogno ora di una nuova forma di divulgatori: i comunicatori.
Il comunicatore della scienza è colui il quale esce dagli laboratori, uffici, palazzi, terreni su cui la scienza ha posato la sua conoscenza, per decidere di narrare una storia all’interno di spazi che erano impensabili, che niente hanno a che fare con il pensiero scientifico: Bar, Caffè, Teatri, Concerti di Musica, Carceri, Scuole. Fare narrazione scientifica mescolando linguaggi diversi, colpendo un pubblico che non si aspetta di sentire una persona che parla di scienza nel bel mezzo di una rappresentazione teatrale o di un concerto. Il risultato finale è sublime! Perché grazie all’armonia che si crea tra la narrazione scientifica e il nuovo ambiente ospitante, è possibile far passare il messaggio in maniera molto più forte rispetto a qualsiasi grandioso e pomposo articolo scientifico.
Un modo diverso di concepire il ruolo del Divulgatore e Comunicatore è spostarlo su un sistema cartesiano - asse orizzontale versus verticale -, oppure nel sistema neurofisiologico che il nostro cervello utilizza per rappresentare lo spazio - egocentrico versus allocentrico -.
Il divulgatore è colui il quale ha lungamente studiato un particolare argomento e si trova nella condizione di diffondere questa conoscenza alla comunità. Il suo approccio è però di natura verticale-egocentrica. “Verticale” nel senso di complementare, per dirla alla Watzlawick, cioè dall’alto verso il basso, in cui il divulgatore è al centro del palco (in alto) con le luci puntate su di lui e fornisce la conoscenza al pubblico seduto (in basso) in platea. Il focus dell’attenzione va al personaggio che emette la comunicazione scientifica, perciò sarà fondamentale il linguaggio non-verbale che userà per sincronizzare le parole. Le sue mani, il suo viso, il suo corpo. Il personaggio deve stare in piedi in mezzo al palco. Nella divulgazione scientifica non esiste il tavolo su cui sedersi o il podio da dove declamare concetti. Nella divulgazione il focus è sul corpo della persona che parla, perciò non può essere nascosto, ma finemente controllato: più armonioso sarà il piano verbale con quello non verbale, maggiore sarà l’efficacia del messaggio. La massima rappresentazione di questo tipo di comunicazione è il programma di divulgazione TED. In questa fondamentale opera di diffusione della conoscenza, il pubblico raccoglie le informazioni (passivamente) e le porta via con sé.
Il comunicatore è invece più spostato verso l’asse orizzontale-allocentrica. Nel senso che la persona che emette la comunicazione scientifica è “in mezzo” al pubblico. Sarà meno importante la sua presenza fisica sul palco, perchè il focus sarà sul suo messaggio che deve diffondersi come un virus nelle menti delle persone. Siamo in una condizione di simmetria tra chi parla e chi ascolta ed è concessa anche l’interazione durante l’espressione della comunicazione. Un esempio classico di questo tipo di comunicazione è quella del prete che parla in mezzo ai fedeli o del politico che parla in mezzo al pubblico. Uno dei primi ad usare in maniera sistematica questo tipo di comunicazione fu Bill Clinton in America, subito riprodotta da Silvio Berlusconi durante le sue prime campagne politiche. In ambito scientifico ancora non si annoverano personalità che si sono distinte in questa nuova forma di comunicazione che sta nascendo in questi anni.
Infine, due fondamentali caratteristiche separeranno il discorso del divulgatore da quello del comunicatore. L’uso massivo di verbi astratti in un caso e di verbi motori nell’altro.
La capacità di cogliere e comprendere il linguaggio verbale è perfettamente spiegata da una teoria neuroscientifica nota come: embodiment of language. In generale, le rappresentazioni semantiche sono entità mentali di natura astratta (“sognare” “desiderare”), diverse dall’espressione di verbi motori («colpisci!», «taglia!»). Mentre le prime sono decodificate ed elaborate all’interno del sistema linguistico, i verbi di natura motoria seguono un altro percorso.
Le rivoluzionarie teorie sull’embodiment of language hanno dimostrato che la corteccia sensoriale e la corteccia motoria primaria sono coinvolte in modo cruciale nella cognizione delle parole. In particolare, la teoria afferma che la comprensione del linguaggio si basa su prove di esperienze sensoriali e motorie relative al significato specifico che il linguaggio porta con sé. Quindi, se io penso alla parola «taglia» o «colpisci», queste innescano l’attività dell’area motoria che corrisponde al controllo della mano, esattamente come se stessi realmente facendo il gesto di tagliare o colpire. Questo meccanismo innesca una più immediata comprensione delle parole.
Fateci caso quando ascolterete un divulgatore rispetto a un comunicatore. Il primo userà verbi più astratti, mentre l’altro userà molti più verbi motori. I primi permettano di attirare l’attenzione attraverso il complesso processo di traduzione (e di fascino) che un verbo astratto porta con sé, i secondi invece giocheranno sull’efficacia a livello corporeo dato dall’uso di verbi motori che saranno immediatamente e più facilmente compresi dal pubblico attorno a sé. Ma questo è solo l’inizio di una nuova era della narrazione scientifica in cui alla fine i protagonisti (divulgatori o comunicatori) fanno quello che faceva Galileo Galilei 400 anni fa: raccontare una storia.