La verità è che Buran in Italia non è mai arrivato

La meteorologia urlata: dalle bufale su Burian agli Scipioni africani

La verità è che Buran in Italia non è mai arrivato
 Ugo Barbàra
Gelo in montagna

L'inverno meteorologico 2017-18 si è concluso con un'anomalia di circa 0,3 gradi, ridottasi nel tempo grazie a un mese di febbraio più freddo di circa 1 grado rispetto alle medie 1971-2000 (dati CNR/ISAC).

Un motivo è stato l'ondata di gelo causata dal flusso artico continentale di fine mese, che ha favorito la caduta di neve in molte località di pianura e ha favorito la formazione del gelicidio in alcune regioni del Nord Italia ad inizio marzo. Tale ondata di freddo è stata strombazzata su quasi tutti i media col nome erroneo di Burian, riprendendo i post di alcuni siti meteorologici commerciali che avevano denominato in questo modo l'evento, spesso parlando genericamente di “aria siberiana”.

Nel caso specifico, in realtà l'aria fredda che ha fatto irruzione sull'Italia è arrivata non dalla Siberia ma dalle zone a nord della Finlandia, seguendo un percorso quasi meridiano fin sulla Slovenia, e penetrando poi dalla porta della Bora grazie al richiamo di una depressione sulla nostra penisola. Il nome Burian in meteorologia non esiste, mentre esiste il nome Buran, che si riferisce ad un vento locale che spira sulle pianure siberiane e sarmatiche della Russia. Data l'enorme distanza che separa la zona del Buran dalla penisola italiana (oltre settemila chilometri), si capisce come parlare di Buran in Italia abbia lo stesso senso che parlare del nostro favonio alpino in Kenya.

La verità è che Buran in Italia non è mai arrivato
 Agricoltura, gelata, gelo, campagna, inverno, trattore

Del resto, un interessante articolo apparso recentemente sul sito dell'Accademia della Crusca chiarisce definitivamente le origini etimologiche dei termini Buran, Burian, e buriana, e il significato che, nel tempo, hanno assunto tali espressioni nella lingua e nei dialetti parlati dalle varie popolazioni, concludendo che, anche dal punto di vista linguistico (oltre che da quello meteorologico), le denominazioni Burian e Buran non sono corrette.

Non paghi di aver usato un nome inesatto per descrivere l'ondata di freddo, intensa ma non rara, e forse inusuale solo per il periodo tardivo, ecco che gli stessi siti hanno battezzato il nuovo afflusso di aria fredda che, in questi giorni, sta provocando qualche altra nevicata tardiva fino in pianura sulle regioni settentrionali e centrali adriatiche, evento certamente meno intenso di quello di inizio marzo, con lo stesso nome – errato, come si è detto – usato per il precedente.

Neanche a farlo apposta, anche in questo caso, l'aria ha avuto un'origine artica continentale, provenendo dalla Scandinavia e non dalla Siberia. Ma tant'è: ormai ci stiamo quasi assuefacendo all'abitudine di dare un nome a tutti i sistemi meteorologici che ci riguardano.

Gli americani, a dire il vero, o meglio gli scienziati della NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), assegnano da anni un nome proprio solamente ai cicloni tropicali atlantici (che chiamano uragani); un'abitudine simile, d'altra parte, esiste anche per i fenomeni similari del Pacifico (che però in quelle lande sono noti come tifoni), ma le denominazioni vengono stabilite dal servizio meteorologico del paese in cui il sistema per primo si manifesta.

La verità è che Buran in Italia non è mai arrivato
 Neve freddo 

In Europa, da diversi decenni l'Università di Berlino assegna un nome proprio alle aree di alta e bassa pressione che transitano sull'Europa occidentale interessando più o meno direttamente la Germania. Tale programma, nel tempo, si è trasformato in una sorta di “adozione del sistema” e i fondi richiesti a chi vuole donare un nome al sistema vengono usati per borse di studio (qui il link al progetto).

Da qualche anno, invece, a partire soprattutto dall'Italia si è diffusa la moda, anche qui iniziata da alcuni siti privati al fine di guadagnare in visibilità mediatica, di battezzare con nomi emblematici e altisonanti (come Scipione l'Africano, per fare un esempio) gli eventi ed i sistemi atmosferici più rilevanti ricorrendo alla mitologia o ad altre lingue, meglio se esotiche e direttamente intraducibili (cosa peraltro paradossale, visto che i nomi usati da Berlino erano considerati troppo nordici ed estranei alla tradizione). Molto recentemente, tale moda pare aver preso piede anche in altre nazioni, col risultato – ridicolo - che magari lo stesso ciclone assume nomi diversi a seconda della nazione che lo descrive, oppure cambia nome attraversando il confine nazionale.

Sul fatto di dare dei nomi ai sistemi di alta e bassa pressione, per di più, non esiste unanimità di vedute da parte degli scienziati. Se per qualcuno associare un nome ad un sistema può avere la valenza di definire univocamente la struttura che si sta analizzando, in realtà la maggioranza dei meteorologi professionisti stigmatizza soprattutto le denominazioni degli anticicloni, dal momento che spesso le strutture che si formano nelle stesse zone hanno caratteristiche similari tra loro che non giustificano denominazioni diverse, e preferirebbe che gli anticicloni fossero descritti in base alle loro caratteristiche (termici o dinamici) o alle zone di formazione (atlantico, africano, continentale, …).

Inoltre, se il numero di uragani annuo è limitato (usualmente oscilla tra dieci e venticinque), di cicloni ed anticicloni ce ne sono molti di più (si può arrivare tranquillamente al centinaio annuo), il che implica una sfilza di nomi che rende arduo poi fare l'”appello” al termine della stagione.

A prescindere da queste questioni, ciò che gli addetti ai lavori lamentano è l'eccessiva spettacolarizzazione della meteorologia e degli eventi, che rischia di non dare il giusto risalto alla qualificazione tecnico-scientifica ed alle metodologie utilizzate per fornire la descrizione e soprattutto le previsioni degli eventi, in particolare di quelli potenzialmente critici nei confronti di persone e infrastrutture, a scapito del risalto mediatico.

A tale proposito l'Aisam (Associazione Italiana di Scienze dell’Atmosfera e Meteorologia) ha pubblicato una dichiarazione sulla comunicazione in materia di previsioni di eventi meteorologici avversi e sull'emissione di allerte da parte di soggetti non abilitati, a cui farà seguito un'analoga iniziativa da parte di UNI-MET, il tavolo di coordinamento delle aggregazioni della meteorologia italiana.

Per concludere, se rivangare i tempi passati può sembrare un'operazione un po' vintage (e indubbiamente occorre ammettere che la qualità e l'affidabilità delle previsioni, nel tempo trascorso dagli anni '70 del 1900 ad oggi, è sensibilmente migliorata), giova peraltro ricordare che il primo divulgatore meteorologo televisivo, l'allora Colonnello Edmondo Bernacca (qui un esempio del modo in cui conduceva la sua trasmissione, che precedeva il Telegiornale unico del canale nazionale della Rai), colui che, alla mia richiesta da liceale di suggerirmi quale percorso di studi intraprendere per avvicinarmi alla meteorologia, mi suggerì la laurea in fisica – ed io ho seguito ciecamente il suo consiglio - era solito “denominare” le perturbazioni atmosferiche (che oggi preferiamo chiamare fronti) con un numero progressivo che si azzerava a fine mese. Per cui il sistema che ha portato la neve a inizio marzo sarebbe stata chiamata semplicemente “la prima perturbazione di marzo”, senza la necessità di scomodare la Siberia o l'Africa.



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