Una minaccia seria per i nostri mari: migliaia di bombe inesplose

Sono frutto di una vecchia logica: gettarle lì dove nessuno possa vederle. Un bando europeo vuole individuarle

Una minaccia seria per i nostri mari: migliaia di bombe inesplose

Bombe in fondo al mare. Si chiamano “marine UXO”, dove “marine” indica i nostri oceani, e l’acronimo “UXO” che sta per “Unexploded Ordnance”: la grande famiglia degli ordigni inesplosi. Sono tanti, disseminati in giro per il mondo, figli soprattutto di una pratica legale (fino agli anni settanta), quando si credeva che il modo migliore per disfarsi di bombe, proiettili o munizioni non utilizzate (e non solo a valle di conflitti) fosse gettarli in fondo al mare.

Nel tempo, a fronte delle diverse e crescenti esigenze di utilizzo dei mari, tale consuetudine è stata inizialmente limitata da problemi legati alla sicurezza e successivamente dalla consapevolezza e dall’evidenza che nei nostri oceani non ci possiamo infilare proprio di tutto, dagli inquinanti portati dai fiumi alle plastiche, dai reflui non trattati alle tonnellate di CO2, senza che qualche cosa, inevitabilmente, si modifichi.

Eppure era pratica abituale, quella di scaricare centinaia di migliaia di tonnellate di ordigni convenzionali o di testate chimiche in punti comodi da raggiungere, e spesso nemmeno tanto brutti.

16mila ordigni gettati nel mare delle Hawaii

Appena fuori Honolulu, isole Hawaii, ne sono stati scaricati più di 16.000 pezzi di varia natura in due soli mesi nel 1944. Quando il ministero della difesa americano qualche anno fa ha finanziato un grosso progetto per vedere dove fossero di preciso e cosa ne era stato, in quattro campagne di misura ne ritrovarono meno di mille. Già, perché ogive e bombe varie, in acqua salata soprattutto, hanno la brutta abitudine di

  • corrodersi,
  • andarsene a zonzo a causa delle correnti di fondo,
  • giocare a nascondino infilandosi sotto i sedimenti.

Ogni tanto, vittime della nostalgia dell’aria di casa, anche di lasciarsi prendere in qualche rete di pescatori inconsapevoli ed esplodere, o di entrare nella catena alimentare marina dopo essersi decomposte in alcuni prodotti tossici o potenzialmente cancerogeni.

Certo, gli oceani sono grandi e la diluizione, in questi casi, aiuta. Ma non così grandi da evitare che il più grande oleodotto del Baltico venisse allungato di qualche centinaia di chilometri rispetto ai piani iniziali, per evitare una delle aree di scarico bombe particolarmente popolata. Non così grandi da non far venire a qualcuno l’idea di cercare di recuperarne qualche chilo per farne un uso improprio.

Il progetto europeo per trovarle nei nostri mari

Anche per questo l’Europa se ne sta accorgendo, e da poco più di un anno un gruppo di esperti scientifici e di rappresentanti delle marine militari di mezzo continente si sono dati una vera e propria missione. All’interno dell’iniziativa JPI-Oceans è nata una azione concertata, “Munitions in the Sea”, coordinata proprio dall’Italia. Obiettivo: mettere la migliore scienza e la tecnologia migliore a servizio di questo problema. E’ nata senza finanziamenti dedicati, ma l’Europa ha apprezzato le prime attività, pubblicando di recente un bando dove, per la prima volta, ci si accorge del tema. E si apre verso possibili finanziamenti per attività di ricerca finalizzate a migliorare l’identificazione di ordigni inesplosi subacquei e ad aumentare la sicurezza degli operatori impegnati nelle bonifiche.

Anche in questo caso l’Italia è in prima linea, proponendo idee e competenze. Obbligatorio fare in fretta, prima che i nostri oceani ci presentino il conto; salato, per definizione!