Nel giorno in cui Instagram taglia il traguardo del miliardo di utenti - soprattutto giovani e giovanissimi - e lancia la nuova funzione IGTV - per fare video lunghi fino a un’ora tenendo il telefonino in verticale, non mi sembra una novità sensazionale - si iniziano a vedere i primi segnali del declino degli influencers. Ovvero di questa strana specie umana, metà app e metà chat, che ha un nome da virus, è cresciuta soprattutto su Instagram, sforna ogni giorno selfie memorabili da dare in pasto a migliaia di followers, veri o finti non importa.
La cosa che davvero non importa è che l’influencer sappia fare qualcosa in modo eccezionale, chessò, cantare, ballare, correre, non sia mai pensare. Non importa appunto. Quello che importa è che costoro abbiano un seguito numeroso e che possano influenzarlo. Per questo da qualche anno sono venerati dalle agenzie pubblicitarie che sperano in questo modo di raggiungere più facilmente potenziali clienti per le loro campagne. E così “influencer” è diventato una professione, in qualche caso con guadagni milionari. Su LinkedIn, il social dei professionisti, più di 170 mila persone si definiscono influencer. Ho visto direttori di grandi giornali farsi presentare come influencer.
Ora questa roba si sta incrinando. Lo si è visto a Cannes dove è in corso il festival della pubblicità e dove stasera, con una mancanza di tempismo formidabile, verranno premiati i migliori progetti “social e influencer” dell’anno. Il capo del marketing della multinazionale Unilever ha detto che loro non lavoreranno più con influencers che comprano followers. Quello di HP ha detto che semplicemente non funzionano più come prima, il pubblico si è stufato.
Quello di Ebay ha detto che sposteranno gli investimenti verso i venditori perché sono più autentici. La mancanza di autenticità è il problema: è stato calcolato che su circa 120 mila commenti giornalieri su Instagram, solo 20 mila non sono postati da bot. Una prova che tutti questi followers non esistono. Ora il declino, meglio tardi che mai.