Nel suo articolo di esordio come collaboratore del Corriere della Sera, Antonio Scurati, scrive di rigettare “con forza e, permettetemelo, con sdegno” le posizioni di coloro che affermano di essere contrari a ogni forma di “aiuto a morire” poiché sono “pro-life” e quindi difensori della vita e depositari del suo significato ultimo.
Non condivido lo "sdegno" che anima l'autore di "M, il figlio del secolo" e vincitore dell'ultimo Premio Strega. Lo sdegno dovrebbe essere un sentimento da tenere a bada nel momento in cui ci si sforza di costruire un Paese come l'Italia di oggi, e cioè una nazione dai molteplici convincimenti etici, morali e religiosi: con punti di vista anche profondamente diversi su cosa siano il bene o il male.
Noi abbiamo assoluta necessità di imparare a convivere e per questo è necessario un vero dialogo che sappia dire cosa significa davvero "convivere pacificamente". Cos'è questa con-vivenza, questo "vivere insieme"? Non può essere quello dello slogan "tutti differenti, tutti uguali" perché se tu dici "tutti differenti, tutti uguali" vuol dire che rendi indifferente la diversità, ovvero la differenza non vale più, non c'è più. Non esiste più, non ha nessun significato. Ma, se così fosse, questo sarebbe un enorme problema. Perché la gente ha bisogno di definire la propria identità anche in base alla propria diversità. La propria identità si capisce anche come differente rispetto a quella degli altri. Il problema quindi non è "sdegnarsi" di fronte alla diversità degli altri ma rendere quella diversità, e ogni diversità, con-vivente con quella degli altri.
La questione suscitata dalla sentenza della Corte Costituzionale riguardo alla non punibilità a determinate condizioni del suicidio assistito - con le ovvie, mi si permetta l'aggettivazione, presa di posizione della Cei - pone l'esigenza di come mantenere nel nostro Paese la diversità alimentando nello stesso tempo, attraverso questa diversità, una relazione di piena convivenza.
Quando si parla di con-vivenza, di inter-culturalità bisognerebbe soffermarsi di più su quei prefissi "inter" e "con". Perché, partendo da posizioni diverse quali sono quella cattolica e quella laica a proposito di suicidio assisitito, si tratta, ciascuno dalla propria posizione, di rafforzare ciò che accomuna nel "con", nel "fra", nell' "inter" tenendo a bada la "dogmatica interna" del proprio gruppo di riferimento.
Faccio un esempio. Se un cattolico dialoga con un cristiano della confessione luterana, è chiaro che avrà posizioni diverse rispetto alla figura del Papa: per questo sarebbe sbagliato proclamarsi "sdegnato" del punto di vista diverso. Entrambi dovranno, in quanto cattolici e in quanto luterani, quindi con ragioni, punti di vista e motivazioni diverse, sforzarsi di ritenere un bene il dialogo e la costruzione di una sfera comune di convivenza civile, in cui la questione del ruolo papale abbia solo un ruolo relativo.
Un sondaggio Doxa del 2017 in occasione del suicidio assistito di DJ Fabo attestò che il 76% degli italiani era favorevole all'eutanasia tout court (fonte GR1). Ora, in un Paese civile, chi ha i tre quarti dei consensi dalla propria parte deve sentire i tre quarti della responsabilità perché un dialogo rispettoso sia tenuto anche con quel 24% di persone che si trovano in minoranza. Perché nelle relazioni con gli altri non bisogna far pesare in modo prevalente la verità interna al proprio gruppo (laico, cattolico) ma deve essere prevalente lo sforzo per costruire una sfera esistenziale, societaria. Abbiamo assoluto bisogno nel nostro Paese di alimentare la ragione relazionale per un mondo comune e non di sdegnarci vicendevolemente per i diversi convincimenti. E sono certo che Scurati questo lo sa bene.