Cosa perdiamo con la morte di Prince Jerry
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Cosa perdiamo con la morte di Prince Jerry

Cosa perdiamo con la morte di Prince Jerry

 Sbarchi di migranti
Afp -  Sbarchi di migranti

Prince Jerry se n’è andato perché ha perso ogni speranza. Era un profugo, uno dei tanti arrivati in Italia. Aveva trascorso i suoi 25 anni di vita senza voler disturbare nessuno. Si era scusato persino con i suoi amici che lo aspettavano a un appuntamento, il giorno in cui ha deciso di buttarsi sotto un treno a Tortona.

Perché, lunedì scorso, gli era stato rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno umanitario. E ha perso tutte quelle speranze che lo avevano fatto arrivare a Genova, dopo un viaggio durato mesi e costato orribili sacrifici, nella rotta dal Niger alla Libia. Se n'è andato, celebrato in una chiesa dell'Annunziata di Genova gremita, lasciando l'Italia con la foto del suo sorriso che trasmetteva la voglia di sognare. E lascia noi tutti con tanti interrogativi che le coscienze ci obbligano a porre.

"Abbiamo tanto da chiedere perdono”, ha esordito don Giacomo Martino, parroco e responsabile di Migrantes Genova, che si era preso cura di Prince quando era in vita e a lui è stato affidato l'ingrato compito di riconoscere quel che era rimasto del suo corpo. Introverso, talvolta polemico, ma soprattutto "capace di ritornare sempre sui suoi passi: era il primo a lanciare il gesto di pace, a chiedere scusa. Sapeva farsi voler bene", ha ricordato don Giacomo.

Chi era Prince

Prince veniva dalla Nigeria, era arrivato ad Agrigento su un barcone partito dalla Libia, dopo avervi trascorso sei mesi di cui non amava raccontare nulla. La lotteria della gestione dei profughi lo aveva catapultato a Genova. Si era presentato forte della sua laurea in chimica, desideroso di tracciarsi il futuro nel Paese che gli aveva aperto le porte. Ricorda il bambino morto annegato qualche settimana nel Mediterraneo, con una pagella cucita addosso per dimostrare quanto fosse bravo a scuola.

"Girava sempre con un libro di chimica, lo leggeva dappertutto, voleva farsi riconoscere la laurea e per questo aveva imparato in fretta l'italiano", ha raccontato di lui al Corriere Maurizio Aletti, il presidente di Migrantes. Si impegnava nel volontariato, aiutava gli altri, era molto apprezzato dai bambini.

Un modello di integrazione

Il suo è stato un modello d'integrazione, il successo del sistema di accoglienza. Nei mesi scorsi però qualcosa si è inceppato. "Dopo aver ricevuto il diniego alla sua domanda di permesso di soggiorno si è tolto la vita. Prince Jerry non scappava dalla guerra, nessuno lo avrebbe ammazzato nel suo Paese. Era un laureato che sperava di trovare un futuro migliore e non aveva alcuna speranza di essere accolto, da quando il permesso per motivi umanitari è stato annullato dal recente Decreto", aveva scritto il sacerdote in un messaggio ai parrocchiani.

Parole che si sono poi propagate sui social, accompagnate dall'indignazione e della commozione. E, ovviamente, dall'ormai immancabile strumentalizzazione. La Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva già deciso di negargli la protezione ben prima dell’introduzione della nuova legge, hanno spiegato poi dalla prefettura di Genova. Qualcosa però non ha funzionato. Prince Jerry è morto perché si è sentito abbandonato.

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