Molti osservatori hanno affiancato la solitudine di Sergio Mattarella mentre sale la scalinata dell'altare della Patria a quella di Papa Francesco che la sera di venerdì 27 marzo saliva, in una piazza San Pietro completamente vuota, la pendenza verso la facciata della basilica.
Al di là della spettacolare unicità di quei momenti, mi chiedo cosa, quelle foto, abbiano detto a ciascuno di noi. Abbiamo forse visto due figure apicali, un Presidente della Repubblica e un Papa, ergersi eroici mentre combattono il mostro della pandemia? Non credo. Piuttosto abbiamo avuto davanti agli occhi la nostra solitudine più intima, quella che non riusciamo a comunicare a nessuno perché non riusciamo a dire neppure a noi stessi.
Oltre a questo c'era anche l'andare piano piano, l'incedere zoppicante, non solo il vuoto di due piazze. Jorge Mario Bergoglio e Sergio Mattarella non avevano in comune solo la solitudine, ma anche il camminare piano, lentamente, contando passi che si fanno uno per volta perché non si sa quello che si ha davanti. Si ha certezza solo del passo che si compie ora e sul prossimo passo, quello che verrà, c’è solo un grande dubbio.
A causa della vecchiaia e degli acciacchi il loro procedere lento, zoppicante, è il camminare di tutti noi.
Mentre agli inizi, due o tre mesi fa, ascoltavamo i vari esperti con l'accanimento dei tifosi, con l'atteggiamento di chi pianifica la propria agenda a medio o lungo termine come ha sempre fatto, ora siamo stanchi. Io da tempo oramai non tengo più il conto dei contagiati, dei morti, dei guariti, degli immuni: non tengo più alcun conto. Mi annoia leggere cosa accadrà dopo il 4 maggio perché le previsioni che leggo cambiano di continuo. Ho imparato a preferire la solidità del deserto. È terra arida ma è anche terra ferma.
Come si sta nel deserto? Non mi pongo questa domanda pensandomi in tempi di satelliti geostazionari e di telefoni satellitari ma in quelli di migliaia di anni fa, quando il popolo d'Israele fuggiva dalla schiavitù dell'Egitto. Anche noi scappiamo da una certa schiavitù: quella di prima. Tutti ci dicono che nulla sarà più come prima. Staremo in casa in modo diverso, lavoreremo in modo diverso, la prossimità tra noi sarà diversa e sarà diverso perfino il bagno al mare.
E allora noi, come gli ebrei che rimpiangono la sottomissione dalla quale fuggono (Nm 11, 4-6), andiamo avanti verso un futuro sconosciuto e quindi andiamo avanti piano piano. Senza nessuna voglia. “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”, recita uno degli slogan più ripetuti: ma noi non abbiamo alcuna voglia di lasciare quella normalità, soprattutto perché nulla sappiamo di quella nuova. Siamo come un gregge che muove verso una meta sconosciuta. Abbiamo lasciato l'ordine per l'avventura, ma nostro malgrado: l'ha scelto il coronavirus, non noi.
Pensiamo al 4 maggio. Quello che sembrava il punto d’arrivo, ogni giorno di più si scopre essere solo il punto di una nuova partenza. E quindi tiriamo avanti frastornati, pensando che tutto quella vita che dobbiamo abbandonare e che sembra essere stata all'origine di tutti i nostri problemi, non era poi così male. Per questo siamo zoppicanti: come Papa Francesco; e facciamo un passettino per volta: come il Presidente della Repubblica. Che incarnano l'incertezza che ci accomuna tutti.