“Il contrario del gioco non è ciò che è serio bensì ciò che è reale”. Questa frase di Sigmund Freud mi ha fatto pensare. Pensare, ad esempio, all’espressione di mio figlio mentre gioca. Concentrata, riflessiva, profonda.
Perché i giochi dei bambini non sono giochi. Ma atti di creazione. Io, almeno, la vedo così e ne ho parlato nel mio blog #facciolamamma. E non importa fare finta. Anzi, importa tantissimo. Perché attraverso il gioco, il bambino crea un ordine. Una momentanea perfezione in quel mondo misterioso e sgangherato che lo attira e gli confonde le idee.
Il rocchetto di Ernst
Torniamo a Freud. Il padre della psicanalisi aveva un nipotino, Ernst. Un giorno il piccolo – aveva 18 mesi – si mise a trafficare con un rocchetto di legno. L’oggetto era avvolto da una cordicella e il bambino lo gettò oltre la cortina del lettino, facendolo sparire, per poi ritirarlo a sé con allegre esclamazioni. L’operazione gli diede tale soddisfazione da ripeterla più e più volte.
Freud capì che le sue teorie erano giuste.
Il gioco per i bambini è come il sogno per gli adulti. Un luogo dove rimettere in atto esperienze psichiche forti o dolorose, ansie o paure. E provare a ripararle, anche attraverso la ripetizione. Diventandone in qualche modo padroni.
Il piccolo Ernst, pur non protestando esternamente, soffriva per le numerose assenze della madre. E quel rocchetto di legno lo aiutava a sopportarne la separazione. A vederla fuori da sé, a dominarla, forse anche a vendicarsene. Addirittura riuscendo, nel gioco, a trarne piacere. “Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere”, scriverà poi Freud.
Il gioco come ponte tra la mamma e il bambino
Il gioco. La madre. Il distacco. E’ tutto qui. E in quell’atto creativo con cui il bambino prende coscienza di sé. Donald Winnicott è stato un pediatra e uno psicoanalista britannico. La sua teoria è molto suggestiva. E dolce. Alla nascita il lattante vive uno stato ‘onnipotente’ di fusione totale con la mamma. Ma, progressivamente, dovrà vivere la scissione. Ed ecco il campo magico del gioco: quello spazio ‘transizionale’ che unisce e, insieme, separa la madre e il bambino.
All’inizio sarà semplicemente una coperta, un piccolo peluche, una bambola di pezza. Il primo oggetto speciale, assimilato dal bambino come ‘non-me’. Il primo uso di un simbolo. L’unione delle due entità ora separate: madre e figlio. Poi arriva il gioco vero e proprio. Quel campo neutro, rassicurante ma libero, quel ponte tra oggettività e soggettività, in cui costruire il proprio io. Attraverso la creatività.
“E’ nel giocare e soltanto mentre gioca che l’ individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé”, afferma Winnicott. Che aggiunge: attenti adulti, questa creatività – e solo lei – vi terrà attaccati alla vita. “La percezione creativa, più di ogni altra cosa, fa sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta”.
Il gioco: il lavoro del bambino
Giocare è una cosa seria, dunque. Anche se molti di noi non lo hanno capito o lo hanno dimenticato. Non a caso Maria Montessori affermava che il gioco è il lavoro del bambino. E se andate in un nido montessoriano, vedrete tanti pargoletti seri seri – spesso in silenzio – intenti a ‘lavorare’.
Un lavoro incessante, faticoso, senza apparente scopo esterno. Se non quello di crescere. Produrre l’uomo. E questo lavoro, a differenza dei nostri, aumenta energia, anziché consumarla. E’ difficile accettarlo, per noi genitori.
Noi stanchi genitori che vorremmo figli sonnolenti alla sera. E, invece, ci prendono per mano. Eccitati. “Giochiamo, mamma? Giochiamo, papà?”. “Il lavoro di crescere costituisce la sua vita stessa: lavorare o morire”. Non distoglieteli. Non li appesantite di mille, differenti attività. L’inglese, la danza, il pianoforte.
Lasciateli semplicemente giocare.