Dalla siciliana “Fondazione Prospero Intorcetta Cultura Aperta” e dal suo presidente Giuseppe Portogallo è provenuto il patrocinio e il contributo alla pubblicazione dell’elegante e importante volume Giuseppe Castiglione. Un artista milanese nel Celeste Impero, a cura di Isabella Doniselli Eramo (Milano, Luni Editrice, 2016), coi saggi inclusi della stessa Doniselli e di Giuseppina Merchionne, Marcello Musillo, Gianni Criveller, Carlo Cinelli e Francesco Vossilla.
Edito nel 250° anniversario della morte dell’artista (1688-1766), il volume è aggiornato alla grande Mostra tenuta nel 2015-16 dall’Opera Santa Croce di Firenze in collaborazione col National Palace Museum di Taipei che l’ha organizzata con mezzi ultramoderni per celebrare il 300° anniversario dello storico arrivo in Cina del grande artista, gesuita coadiutore, che con altri europei contribuì ad aprire le arti cinesi e di un po’ tutto l’Estremo Oriente alle tecniche e stili di quelle europee, ma che, più degli altri, condivise e assimilò tecniche, stili e linguaggio delle arti cinesi. Si è tenuto su di lui anche un Convegno.
Fra le presentazioni del volume, Nicoletta Spadavecchia lo ricorda milanese: “sconosciuto a buona parte dei suoi concittadini, ma studiato per anni con cura e diligenza scrupolose dalla sinologa Giulia Valdettaro Marzotto Caotorta, anch’essa milanese”. È stato studiato in verità da molti altri, e tengo personalmente a ricordare George Robert Loehr che dedicò la vita a Castiglione sotto il patrocinio dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente di Roma, prima e dopo la guerra, pubblicando su di lui fin dal 1940 (come del resto ricordato nella bibliografia dei vari saggi) la prima opera di vasto respiro alla riscoperta e riproposta dell’artista.
Nuoce al volume l’insistenza ripetitiva sulla “milanesità” di Castiglione: il campanilismo rischia di fare di lui un artista e una figura di provincia, quando fu italiano, europeo e, a suo modo, cinese e mancese con le generalità di Lang Shining, e che, certo, è stato più celebrato in Cina che in Italia e nella stessa Milano.
Marco Musillo ci informa nel suo saggio “Eredità e oblio di una forma pittorica transculturale: Giuseppe Castiglione (1688-1766) artista milanese a Pechino”: “Castiglione entra [a diciotto anni e mezzo] nell’ordine religioso come potenziale fratello laico e pittore formato, iscritto il 17 gennaio 1707 sui registri della domus probationis genovese come coadiutore novizio destinato alla Cina (“provincia Sinensi”). La sua entrata nel noviziato genovese corona la ricerca da parte dei gesuiti di un giovane pittore da inviare in Cina per servire l’imperatore Kangxi”; durante la sosta a Genova, “Castiglione ricevette la doppia commissione per il refettorio e per la chiesa che riuscì a terminare prima del 1709 quando partì alla volta del Portogallo. A Coimbra l’interesse per le capacità del giovane pittore si rinnova […]. L’impegno pittorico richiesto al milanese in Portogallo diventò persino un ostacolo al viaggio verso la Cina. […]. Castiglione arrivò in Cina nell’agosto del 1715…”. Dunque, un artista continuatosi a formare frattanto in mezza Europa.
In Cina operò sotto tre imperatori (Kangxi, Yongzheng e Qianlong) e contribuì, come si è detto, con gli altri europei attivi alla corte di Pechino e nel Jehol a ottenere un buon trapianto dell’architettura e delle arti europee in Cina e Manciuria. Al suo arrivo era passato un secolo da quando un primo artista italiano era stato chiamato per le missioni gesuitiche allora del Giappone e della Cina: si era trattato di Giovanni Cola (1560-1626), che aveva compiuto una prima presentazione dell’arte sacra e rinascimentale europea in entrambi i paesi; per la Cina attraverso Macao in cui aveva a lungo soggiornato, una volta profugo dal Giappone per il bando reiteratovi del cristianesimo.
All’arrivo di Castiglione non si trattava più di diffondere le arti sacre nel clima di forte crisi in cui entrava al tempo il cattolicesimo anche in Cina; la conoscenza e la pratica delle arti europee erano sì ancora e in continuità ambite, e non più solo quelle italiane. Alla corte Qing di Pechino il modello della Roma papale era diventato ormai obsoleto e sostituito da quello che veniva imperando dalla Francia dei suoi re Luigi a Versailles. E toccava ai due italiani Castiglione e Ferdinando Bonaventura Moggi (Li Boming, 1684-1761), con alle spalle i francesi Jean Denis Attiret e Michel Benoist (con altri), di simulare di essere a Parigi per trasferire in Cina la Francia con le sue arti e architetture monumentali e scenografiche. Entrambi dotavano l’architettura cinese a compensarla largamente del giudizio negativo datole più di un secolo prima da Matteo Ricci: “Nella architettura [i cinesi] sono inferiori ai nostri, sì nella bellezza come nella fortezza degli edificij. Nel che non so si sieno più di biasimare i nostri che i Cinesi, i quali non edificano se non per durare gli puochi anni che hanno di vita e non migliaia di anni come i nostri. […] la causa di durar puoco i loro è perché, o non vi fanno nessuno fundamento, se non fosse il porre sotto qualche pietra e battere la terra, o si lo fanno, non sono di un braccio o doi di fundo, anco in muri, torri et altri edificij altissimi. E così puochi arrivano o passano li cento anni…”.
Le architetture di Castiglione e Moggi avrebbero resistito fino alle cannonate europee.
Le arti cinesi ai primi Qing stentavano ancora ad assorbire quelle europee che avevano cominciato a filtrare nella Cina della precedente dinastia Ming dal secondo Cinquecento, e non erano variate molto da quando ancora Ricci lamentava che gli artisti cinesi “Non sanno pingere con olio né dar l’ombra alle cose che pingono, e così tutte le loro pinture sono smorte e senza nessuna vivezza”. Castiglione fu con gli altri europei l’artista che insegnò la pittura a olio e altre tecniche; insegnò a ravvivare i colori, a “dar l’ombra alle cose”, ma non condivise certo che le pitture cinesi fossero “smorte e senza nessuna vivezza”. Gli piacevano e apprese a imitarle; si impadronì delle tecniche e degli stili, e diventò l’unico vero Maestro in Cina della chinoiserie che frattanto culminava in Europa e alla quale fece conoscere le stesse sue opere coi disegni che inviava a Parigi, ed erano studiati nel primo Novecento dal citato Loehr che li pubblicava nel 1962.
Tornando al volume, esso è profusamente illustrato da opere sia del Museo di Palazzo di Pechino sia del Museo Nazionale di Taipei, e corredato di una monografia più generale sulla Cina di Giuseppina Melchiorre. La curatrice Doniselli Eramo aggiunge al saggio centrale, “Giuseppe Castiglione da Milano alla Cina: un ponte fra culture”, un excursus storico su “Il cavallo nella tradizione artistica cinese e nell’opera di Giuseppe Castiglione”, fu lui, tra l’altro, il pittore che ci ha lasciato un celebrato “Imperatore Qianlong a cavallo” in vesti di parata.
Nell’insieme il volume, coi contributi dei vari autori, rappresenta un prezioso strumento di studio. Il saggio di Cinelli e Vossilla, “Rileggendo due lettere. Accomodamento e creatività missionaria di Castiglione e Moggi nelle chiese e nei palazzi di Pechino”, invita a ulteriori ricerche sulle fonti che restano manoscritte di e su Castiglione. Rimane da attendere che qualche sinologo traduca a sua volta fonti e studi cinesi. Intanto, ci si incontra in rete col breve saggio di Elizabeth Scheurman, “major” dell’Università di Rochester, intitolato “Our Sister Painter”: the Life of a European Woman in Qing China”; in esso un’italiana, tale Laura Biondecci (1699-1752), è menzionata per il lungo sodalizio anche artistico che Castiglione avrebbe stabilito con lei già in Italia prima della partenza per la Cina e proseguito a Pechino. Sarebbe interessante saperne di più, e importante se si potesse identificare qualche opera compiuta a due mani o qualcuna a lui attribuita opera in realtà di lei...